Fase 2 e calcio. Logo del campionato di Serie A

Un’analisi per capire quali siano le possibilità che la Serie A riparta, considerando tanto l’aspetto economico quanto quello sanitario

Nei primi giorni di Fase 2, il dibattito si sta concentrando principalmente sulla possibilità di ripresa delle attività ancora chiuse. Una delle discussioni più accese verte sull’opportunità di portare a termine il campionato di Serie A 2019/20, interrotto a causa del coronavirus.

Come spesso accade in questi casi, si sono formate due fazioni (chi vuole riprendere la Serie A e chi no) che si danno contro senza accettare la benché minima concessione all’altra parte. La faccenda, però, è troppo complessa per fermarsi a questa polarizzazione e deve andare oltre frasi fatte come “il calcio non è importante ora”, “vogliono far riprendere il calcio solo per i soldi” oppure “chi non vuole la ripresa lo fa per motivi politici”.

Se il livello del dibattito è questo, è anche perché i principali protagonisti della vicenda (politici, presidenti di Serie A e giornalisti) non hanno alzato la qualità della discussione come avrebbero dovuto, ma si sono limitati a portare avanti i propri interessi senza analizzare il quadro complessivo della situazione.

Qui si cercherà di avere una visione d’insieme da un punto di vista economico e sanitario, tirando poi le somme e anche esprimendo il proprio punto di vista nel rispetto dell’analisi che seguirà. Come ama dire il grande Rino Tommasi: “Obiettivi sempre, imparziali mai“.

Fase 2 e Serie A: l’aspetto economico

Anzitutto, partiamo proprio dalla prima delle frasi fatte elencate precedentemente: “il calcio non è importante”.

Quest’affermazione, così densa di retorica, si è sempre prestata a facili banalizzazioni. In questo momento storico il concetto è estremamente sbagliato. Allo stato attuale, la ripartenza di qualunque settore produttivo è importante. Dare alla gente la possibilità di tornare a lavorare e guadagnare (lo scriviamo solo una volta: laddove sia possibile farlo in sicurezza) è vitale.

Che il reddito dell’individuo dipenda dalla ristorazione, dalla vendita di videogiochi o dallo sport poco importa. La riapertura di ogni attività, quale che sia, deve essere accolta con favore. Molti si lamentano perché alcune attività “più importanti” sono ancora ferme, mentre altre “superflue” sono già riaperte; ragionamento totalmente sbagliato, dal momento che stanno ripartendo le attività in base al rischio di contagio che comportano, non alla propria “importanza”.

Il calcio, d’altronde, ha dei numeri economicamente rilevanti, ma che in queste settimane sono stati ingigantiti.

Nonostante alcuni affermino che il calcio valga il 7% (quando non l’11%) del PIL italiano, è bene precisare che secondo gli ultimi dati disponibili (quelli del 2016) il calcio ha un peso sul PIL pari allo 0,51%, con una stima di 89.000 addetti ai lavori e tasse annue generate per un pari circa di 1,7 miliardi di euro; numeri che negli ultimi anni dovrebbero essere cresciuti ma senza stravolgerne il valore reale. Cifre significative, ma niente di quanto – forse faziosamente – prospettato da più parti.

Chiaramente il dato che più interessa è quello dei potenziali posti di lavoro che una sospensione definitiva della Serie A comprometterebbe (si parla di diverse migliaia). Lavoratori che non sono calciatori milionari, ma gente comune. Questa è sicuramente l’argomentazione principale che chi è a favore della ripresa del campionato fa (giustamente) valere.

In seconda battuta, bisogna valutare le conseguenze che una fine anticipata della Serie A potrebbe avere su tutto il sistema calcio in Italia.

I toni assunti quando si delinea la possibilità di non riprendere il campionato sono a dir poco catastrofisti: si parla di fallimento e collasso. Lo stesso Gabriele Gravina, Presidente della FIGC, ha addirittura detto di non voler essere il becchino della Serie A.

Una sospensione definitiva e prematura delle competizioni sarebbe una brutta botta (soprattutto per l’inevitabile perdita di incassi derivati dai diritti televisivi) per qualunque lega calcistica europea, ma viene da chiedersi perché solo in Serie A si ricorra a questa terminologia fatalista. Per carità, anche in Premier League (regina dei diritti televisivi) si prospetta il fallimento di qualche club già in difficoltà economica, ma non si profila un ridimensionamento totale come quello prospettato dai vertici del nostro calcio.

Il coronavirus ha drammaticamente e definitivamente scoperchiato la mala gestione del mondo pallonaro nostrano, che si regge da decenni su giochi di potere e ardite operazioni economiche. Viene da chiedersi se il virus non abbia semplicemente anticipato delle difficoltà che prima o poi, per qualunque motivo (che sia una pandemia o una crisi economica), sarebbero emerse e avrebbero messo in ginocchio il sistema.

Non siamo così sicuri che la cattiva amministrazione del calcio non possa essere reputata una causa secondaria delle attuali difficoltà rispetto al coronavirus. Una gestione virtuosa avrebbe senz’altro ridotto la portata delle conseguenze del lockdown, non generando l’allarme manifestato in questi giorni.

Ha senso cercare di salvare in tutti i modi un sistema precario che, senza una riforma strutturale (di cui non si è minimamente parlato), rischierebbe comunque il collasso? Oppure è il caso di ripensare in toto la gestione del calcio per permettergli di sopravvivere al coronavirus e non solo, anche se questo dovesse costare dei sacrifici iniziali?

Fra l’altro non è neanche così scontato che il prosieguo del campionato possa essere la scelta economicamente migliore anche nel breve periodo.

Se da un lato, infatti, la ripresa della Serie A attutirebbe notevolmente le perdite già registrate e quelle stimate, dall’altro c’è il rischio che portare a termine questa stagione a qualunque costo possa mettere in pericolo il regolare svolgimento della prossima, soprattutto considerando la possibilità di ulteriori sospensioni per nuove ondate di contagio.

La stagione 2020/21, infatti, dovrà terminare in tempo utile per permettere lo svolgimento degli Europei, posticipati di un anno per l’emergenza coronavirus. Considerando inoltre l’inevitabile ritardo con cui la prossima Serie A ripartirebbe, la conclusione del campionato venturo non è affatto scontata. Di conseguenza, si ripresenterebbero i problemi di mancati incassi che tanto preoccupano per la stagione in corso.

Un’idea rilanciata da alcuni sarebbe quella di spostare l’inizio della prossima stagione a gennaio 2021, facendola corrispondere all’anno solare con l’intermezzo dell’Europeo, per poi riallinearsi gradualmente in qualche anno alla calendarizzazione tradizionale (tenendo conto anche dei prossimi Mondiali in Qatar nel 2022). Questa proposta di calcio non-stop, tuttavia, costringerebbe i giocatori a un tour de force che difficilmente i loro sindacati non farebbero pesare sulla scelta futura.

L’impressione è che, per un motivo o per un altro, il calcio dovrà inevitabilmente fare i conti con le conseguenze di questa emergenza sanitaria.

Non si tratta più di “se succederà”, ma di “quando succederà”. In parte sta già succedendo, se pensiamo alle serie minori. È notizia di pochi giorni fa, infatti, che la Serie C non riprenderà. Mentre si discute animatamente sui criteri di promozione (aspettando anche le decisioni della Serie B), si devono valutare le conseguenze che questa scelta comporterà su tutto il sistema professionistico italiano.

Al di là di quella che sarà la composizione delle serie minori (circola, ad esempio, la suggestione di una Serie B da due gironi da 20 squadre), la linea potrebbe essere quella di un abbattimento del numero di squadre professionistiche, in modo tale da ridistribuire meglio le risorse ed evitare che società indebitate continuino ad affollare la scena del professionismo.

La Serie C potrebbe diventare un campionato semiprofessionistico, ma al momento manca una disciplina per il semiprofessionismo, motivo che non rende agevole un passaggio del genere. D’altro canto, le serie inferiori sono teatro di diversi fallimenti societari già in condizioni ordinarie; ipotizzare che la situazione attuale non avrà ripercussioni negative appare piuttosto difficile.

Fase 2 e Serie A: l’aspetto sanitario

Le considerazioni appena fatte devono cedere il passo alle valutazioni di tipo sanitario. Tutto quanto detto finora perde qualunque rilevanza se non sarà possibile garantire lo svolgimento della Serie A in totale sicurezza.

Mentre si aspetta di capire se durante la Fase 2 i contagi continueranno a scendere come negli ultimi giorni o se, su un lasso di tempo più lungo, la tendenza sarà quella di un nuovo incremento, il terreno di scontro principale è il protocollo della FIGC per la ripresa di allenamenti e del campionato.

Il responso del Comitato tecnico scientifico sulla bontà delle disposizioni della FIGC dovrebbe arrivare già oggi e se per la ripresa degli allenamenti in gruppo c’è ottimismo, lo stesso non può dirsi per la ripresa delle competizioni.

Il punto maggiormente controverso riguarda le misure da adottare in caso di positività di un giocatore o di un membro dello staff.

A rigore, la soluzione dovrebbe essere quella di mettere in quarantena tutta la squadra, essendo composta da persone che sono state in contatto con il contagiato. Questo significherebbe che la squadra in questione non potrebbe scendere in campo per le due settimane successive, con la conseguenza di ritardare ulteriormente la fine del campionato, che sarebbe sospeso totalmente o che, comunque, dovrebbe prorogare il termine massimo entro cui concludere la stagione (attualmente previsto per il 3 agosto) per recuperare gli incontri non disputati.

A ciò si aggiunge che il mese di agosto è già occupato dalle coppe europee e che si dovranno consegnare le classifiche alla UEFA in tempo utile per l’assegnazione dei posti delle prossime competizioni europee. Considerando che da qui ad agosto appare difficile che in tutta la Serie A non si presenti neanche un caso di positività (a riprova di ciò, Sampdoria e Fiorentina hanno già isolato alcuni tesserati positivi prima della ripresa degli allenamenti), finire il campionato con queste disposizioni appare piuttosto improbabile.

La FIGC spinge per poter attuare il protocollo tedesco: in Germania è previsto che, in caso di positività, solo il contagiato venga messo in quarantena, mentre il resto della squadra, previo accertamento, possa continuare ad allenarsi e giocare normalmente. Onestamente questa sembra una deroga troppo grande che il mondo del calcio chiede rispetto alla disciplina ordinaria; oltre che poco sicura, la previsione appare anche poco equa rispetto a quanto previsto per gli altri settori produttivi, che dovrebbero sottostare a regole più rigide.

A questo punto si deve cercare di abbattere il rischio di contagio il più possibile, motivo per il quale si sta prendendo in considerazione l’idea di mettere in ritiro calciatori e staff per un periodo che potrebbe andare dalle due settimane al mese e mezzo.

Limitare drasticamente gli spostamenti dei componenti dei club abbatterebbe il rischio di contagio ma, anche in questo caso, significherebbe chiedere ai giocatori un sacrificio significativo (soprattutto se il ritiro fosse particolarmente lungo), costringendoli a stare lontani dalle proprie famiglie. Non è assolutamente da escludere che l’AIC (Associazione Italiana Calciatori) potrebbe mostrarsi contraria.

Pensare che giocare a porte chiuse fermi il contagio e tenga tutti al sicuro, inoltre, fa spesso dimenticare di considerare i rischi per la salute dei giocatori stessi.

Questi sono sicuramente assistiti da un vigore fisico eccezionale che permette al loro corpo di rispondere in maniera efficace al virus, ma al momento si stanno studiando le possibili conseguenze che sforzi fisici molto intensi potrebbero avere sul decorso della patologia.

Secondo uno studio, uno grande sforzo durante il periodo di incubazione potrebbe essere un fattore di rischio e potrebbe favorire lo sviluppo di forme di infezioni più gravi. D’altro canto, è già stato studiato il fenomeno dell’open window, per il quale dopo sforzi molto intensi c’è una depressione temporanea delle difese immunitarie, ricollegabile ad un rischio un po’ più alto di infezioni alle vie aeree superiori come naso e gola.

A riprova di come neanche i giocatori siano sicuri di mantenersi in salute abbiamo il caso Junior Sambia, 23enne del Montpellier, addirittura in coma indotto per la criticità delle sue condizioni (che fortunatamente sembrano migliorare). Aspettando risposte ulteriori dalla scienza, la prudenza dovrebbe essere massima.

Junior-Sambia-Montpellier
Fase 2 e calcio: Junior Sambia, giocatore di 23 anni del Montpellier, è in coma a causa delle sue gravi condizioni di salute.

Non che si possa aspettare che il rischio di contagio sia pari a zero per riprendere l’attività (altrimenti lo sport mondiale sarebbe paralizzato per almeno un altro anno) ma sicuramente un ulteriore abbassamento dei positivi abbatterebbe i rischi e permetterebbe di giocare in condizioni di maggiore sicurezza. Come già detto, però, per queste risposte occorrerà vedere l’efficacia delle misure della Fase 2 nelle prossime settimane.

Da ultimo, bisogna considerare anche le conseguenze legali che i contagi potrebbero avere.

Anzitutto perché alcune assicurazioni sottoscritte dai club non prevedono la copertura di danni permanenti al tesserato causati da una patologia dovuta da una pandemia. Circostanza, questa, che costringerebbe a rivedere i contratti stipulati con le compagnie assicurative, operazione tutt’altro che semplice. Inoltre non bisogna sottovalutare che il Decreto Cura Italia ha equiparato il coronavirus a una malattia professionale. Questo significa che, in caso di mancata attuazione delle misure preventive (o di una loro scorretta applicazione), presidenti e dirigenti sarebbero ritenuti responsabili (civilmente e penalmente) degli eventuali danni gravi che un tesserato potrebbe riportare a causa della patologia. Qualunque richiesta di scudo penale per i club appare inopportuna e irricevibile, perciò sarà necessaria una puntuale applicazione delle disposizioni in materia per potersi mettere al riparo da qualunque responsabilità.

Riflessioni finali

Insomma, la ripresa della Serie A appare complicata e trova sulla propria strada un numero enorme di ostacoli che ne sconsiglierebbero il prosieguo. Eccezion fatta per il baseball (sport non di contatto e il cui campionato inizia nel mese di giugno) il calcio è l’unico sport di squadra che non ha dichiarato conclusa la propria stagione.

Sicuramente questo avviene per evitare conseguenze economiche disastrose, che inciderebbero tanto sul sistema quanto sui lavoratori (cosa che non può essere ignorata). Senza queste problematiche probabilmente il calcio avrebbe già chiuso i battenti.

Allo stesso tempo bisogna capire quante possibilità ci siano concretamente di finire la Serie A in corso e quante di farlo in sicurezza. Risposte certe si avranno solamente nelle prossime settimane, quando sarà chiaro l’andamento dei contagi. Nel frattempo si deve adottare un protocollo definitivo già ora e, in base a questo, valutare se il prosieguo della Serie A sia possibile o meno anche in base all’evoluzione della situazione sanitaria.

Tentare di ripartire può essere lecito, ma non lo sarebbe ostinarsi. Già oggi, però, possiamo dire che il sistema-calcio deve ripensarsi, dal momento che il coronavirus ha smascherato decenni di cattiva gestione e falle che, se non oggi, in futuro ripresenteranno problematiche analoghe alle attuali. Paradossalmente questa può diventare un’occasione (forse l’ultima) per ripartire e creare delle fondamenta più salde.

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Scritto da:

Lorenzo Picardi

Avvocato e pubblicista, non giudicatemi male. Per deformazione professionale seguo qualunque fatto d'attualità. Non sono malato di sport, mi limito a scandire i periodi dell'anno in base agli eventi sportivi. Ogni tanto provo a fare il nerd, con risultati alterni.
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