“Breaking News: Omicidio in senato” – “Ultima ora: Accoltellato senatore” – “ Roma: Congiura in senato, ci scappa il morto”
Ebbene sì, sono morto! No, non spaventatevi: è successo tanto tempo fa, esattamente il 15 marzo del 44 a.C., il giorno delle idi di marzo (ai miei tempi non avrei indicato la data in tale modo, ma mi adeguo ai conteggi moderni), e la mia morte, così come la mia vita, è entrata nella storia!
Scusate, mi presento: sono Caio Giulio Cesare, figlio di Aurelia e di C. Giulio Cesare; faccio parte di un’antica e aristocratica famiglia della Gens Iulia, che discende direttamente dal figlio di Enea e quindi dalla stessa Venere.
Sono un uomo colto e intelligente, non per vantarmi ma sono un ottimo oratore e un grande scrittore, come testimoniano le mie opere più famose: il De bello gallico e il De bello civili, tra le più tradotte nei vostri licei.
Sono stato uno straordinario stratega e un politico geniale, molto amato dal popolo. Perdonai quella serpe di Cicerone, diedi ai veterani una sistemazione fondando molte colonie. Cercai anche di risanare l’amministrazione romana, inefficiente e costosa a causa dei senatori.
Tutto questo, però, non lo dico io, ma i miei storiografi
La mia vita e la mia morte sono state raccontate da svariati autori: a me piace ricordare principalmente Plutarco, che nelle sue Vite parallele paragona la mia vita e le mie opere a quelle del grande Alessandro Magno, e Svetonio, che nelle Vite dei Cesari traccia una mia accurata biografia seguita da quella degli undici imperatori che mi succedettero, dal mio caro nipote Ottaviano Augusto fino a Diocleziano.
Certo, ai miei tempi non esistevano testate giornalistiche come le avete oggi e l’ultima ora che interrompe il vostro programma preferito è ovviamente una mia fantasia; ma l’uccisione di un Dictator in senato era un fatto grave e il mio omicidio fu un evento tale da sconfiggere il logorio del tempo.
Anche chi non è avvezzo alle cose storiche o al latino, almeno una volta nella vita, in occasione di un evento più o meno pertinente (probabilmente non un assassinio) avrà pronunciato la famosa “Tu quoque…”. Frase che francamente non sono certo di aver pronunciato.
Dictator?
Chiariamo subito un concetto: ho usato il termine Dictator alla latina, intendendo cioè un supremo magistrato romano, eletto in casi eccezionali e per un periodo di tempo limitato, dotato di pieni poteri. L’evoluzione di questo termine porta alla condizione di dittatore che voi avete in mente, ma io non ero affatto un dittatore. Almeno formalmente.
Un bravo giornalista d’inchiesta della vostra epoca avrebbe condotto la diretta da davanti al Senato, lanciando via via i vari servizi, e così proverò a fare io stesso.
Le idi di marzo, il mio assassinio
Raccontare l’evento mi fa ancora un certo effetto, non tanto per il dolore fisico provato in quel momento, quanto per la sensazione di solitudine, d’isolamento, la sofferenza di aver contro, di essere ucciso non tanto dai nemici storici, ma dagli amici di sempre.
Quella mattina non mi sentivo affatto bene, così uscii di casa per recarmi in Senato dopo l’ora quinta (le vostre 11:00) scortato dai littori e solo dopo l’insistenza di Decimo Bruto, mio amico fedelissimo. O almeno così pensavo, non lasciatevi andare a facili battute che giravano anche ai miei tempi (con amici così chi ha bisogno di nemici, ndr). Insomma, Decimo mi convinse che sarebbe stato scortese non recarsi al Senato, visto che i magistrati già attendevano da tempo.
Non appena vi giunsi, vidi Trebonio che parlava con Marco Antonio, il mio luogotenente, e altri senatori mi si avvicinarono per rendermi onore.
L’assalto
Fu allora che Cimbro Tillio arrivò per chiedermi un favore (o così almeno mi sembrava). Io, che non avevo voglia d’intavolare in quel momento discussioni, immaginando che volesse chiedermi qualche grazia per il fratello in esilio, gli feci un gesto per fargli capire che non era il momento adatto. Cimbro, allora, mi tirò la tunica, tanto da farmi sbottare: “Ma questa è violenza!”.
Non sapevo ancora che quello era il gesto convenuto tra i congiurati per procedere al mio assassinio!
Publio Servilio Casca sferrò il primo attacco da dietro le mie spalle, ma mancò la gola e mi ferì il petto. Stupefatto, ma allenato da anni di battaglia, afferrai il suo braccio e gli conficcai dentro il suo stesso stiletto, imprecando “Maledettissimo Casca, che fai?”. L’assalitore, allora, si rivolse al proprio fratello: “Fratello, aiutami!”.
In un attimo tutti i congiurati mi furono addosso. Guardandomi attorno vidi i volti di amici e nemici, affannati, impauriti e pronti ad aggredirmi tutti con le spade sguainate. Mi resi conto che non ne sarei uscito vivo quando mi trovai innanzi Bruto, il mio Bruto, così alzai la tunica sopra la testa, per morire più decorosamente, e mi accasciai ai piedi della Statua di Pompeo.
I senatori e i congiurati
I congiurati, tutti senatori, erano circa una sessantina ed erano capeggiati da due ex-pompeiani: Caio Cassio e Marco Bruto. La motivazione con cui attirarono altri senatori a questa infame causa fu che temevano che il potere, le cariche e l’onore che avevo conquistato con tanto sacrificio, portassero a una deriva autoritaria.
E pensare che, qualche mese prima dei fatti, Marco Antonio mi aveva offerto pubblicamente un diadema, simbolo del potere assoluto, ma io lo rifiutai con fermezza.
Avevamo orchestrato questa sceneggiata per tranquillizzare il Senato; non era mia intenzione porre fine alla Repubblica per sostituirla con una Monarchia, come qualcuno vociferava. Evidentemente il gesto non sortì l’effetto sperato.
Nei minuti successivi
L’omicidio fu così inaspettato e improvviso, oltre che per me, anche per gli altri senatori non coinvolti nella congiura, che rimasero immobili, pietrificati dall’evento, senza riuscire a intervenire in mia difesa, né scappare.
Nella frenesia dell’omicidio i congiurati menarono colpi a caso, ferendosi anche tra loro.
Ventitre fendenti mi raggiunsero (ce ne vollero ventitre per eliminarmi!) ma l’unico colpo che si rivelò fatale fu il secondo nell’addome, quello probabilmente inflitto dal fratello di Cimbro.
Mentre tutti fuggivano, il mio corpo venne abbandonato in Senato e rimase a terra diverse ore, finché non arrivarono i servi che lo caricarono su una lettiga e mi riportarono finalmente a casa.
Presagi di morte
Come Svetonio racconta nella Vita dei Cesari, la notte tra il 14 e il 15 marzo 44 a.C., il mio sonno e quello della mia cara moglie Calpurnia furono funestati da sogni premonitori.
Io sognai di volare sopra le nuvole e di stringere la mano a Giove, mentre Calpurnia sognò che crollava la sommità della casa e che le spiravo tra le braccia.
Ero anche solito rivolgermi agli aruspici e l’augure Spurinna, come giustamente scrive Plutarco, mi aveva predetto “Cesare! Guardati dalle idi di marzo!”. Io, quel mattino fatidico, lo incontrai prima di entrare in Senato e oggi posso dire che, un po’ troppo spavaldamente, ribattei: “Spurinna, come vedi le Idi son giunte!”. Al che, Spurinna replicò: “Sì, son giunte – o Cesare – ma non sono ancora trascorse!”.
Sorrido ancora a ripensarci.
Tu quoque Brute, fili mi!
Si racconta che, mentre subivo l’aggressione da parte di Bruto, il mio protetto (beh, tanto siamo da soli e posso dirvelo: ho il sospetto che Bruto sia mio figlio; frequento da tanti anni sua madre Servilia, gran bella donna, intelligente… Ops! Scusate, mi son fatto prendere dai ricordi. Dicevamo? Ah, sì, beh… Non è improbabile quindi che Bruto… beh, ci siamo capiti!) pronunciassi la frase “Tu quoque Brute fili mi!”.
Ma questa è una revisione tarda e poetica. Sinceramente questa parte non la ricordo bene. Probabilmente non riuscii a dire niente e, se parlai, forse la pronunciai in greco ”καὶ σύ, τέκνον”, che significa “Anche tu, figlio!”.
I giornali in epoca romana
Come dicevamo non esistevano organi di stampa come li intendete oggi, ma fui proprio io – Giulio Cesare – a istituire gli Acta, cioè gli Atti del popolo, che erano una specie di quotidiano. Tutti i giorni i pubblici ufficiali li stilavano e poi venivano esposti in luogo pubblico, su una tavola imbiancata. Dopo un ragionevole lasso di tempo, venivano tolti per essere sostituiti da altri documenti e archiviati in modo da essere disponibili per future consultazioni.
Diversi erano gli Annales che riportavano solo gli eventi più importanti e degni di nota e possiamo pensarli come un settimanale di approfondimento. Infine, gli Acta riportavano notizie più brevi di minor nota.
C’è anche da considerare che la maggior parte della popolazione non sapeva leggere, e questo accadeva anche tra i nobili, quindi spesso venivano effettuate letture pubbliche.
Dopo l’omicidio
I congiurati si riversarono nel foro con i pugnali insanguinati, inneggiando alla libertà. Marco Antonio sfuggì alla morte perché Bruto fermò Cassio, deciso ad allungare la scia di sangue.
Come era logico, la notizia della mia morte si sparse velocemente per Roma. La gente era terrorizzata e, temendo scontri, si chiuse in casa; i negozi vennero chiusi e in breve non ci fu in giro anima viva. Alla sera la calma non era ancora tornata e i congiurati si ritirarono sul Campidoglio per stare al sicuro.
Il 16 marzo
Lepido, comandante della cavalleria, venuto a conoscenza del mio assassinio non perse tempo e occupò il foro con i soldati e parò al popolo contro i congiurati ancora rinchiusi in Campidoglio.
Marco Antonio convocò il Senato e alla seduta partecipò anche Cicerone. Molti dicono che facesse parte della congiura, ma non lo vidi in Senato quel giorno; inoltre non è mai stato considerato molto affidabile, quindi probabilmente non venne neanche avvisato.
Dopo varie trattative, grazie all’abile lavoro di Marco Antonio, il Senato concesse l’amnistia agli assassini, decretò onoranze solenni per Cesare, confermò tutti i decreti e le nomine di Cesare e assegnò, a Bruto e ai suoi, incarichi prestigiosi fuori Roma.
Se solo non fossi defunto l’avrei considerata una vittoria schiacciante.
I funerali
Davanti ai Rostri, nel Foro, fu costruita un’edicola dorata, che riprendeva le forme del tempio di Venere genitrice. All’interno, su di un trofeo, venne esposta la toga insanguinata che indossavo al momento dell’assassinio.
Antonio fece leggere in Senato il consulto con cui i senatori si erano impegnati per la salvezza di Cesare, poi tenne un bellissimo discorso funebre. Si discusse, poi, su chi volesse cremare il mio corpo, ma d’improvviso due uomini gettarono due ceri accesi e il popolo alimentò il fuoco portando fascine e distruggendo le tribune di legno allestite per la cerimonia.
I veterani delle legioni gettarono nelle fiamme le loro armi, le matrone i loro gioielli, i musicisti e gli attori (che avevano rappresentato gli antenati del defunto) le vesti indossate per l’ultimo trionfo. Parteciparono anche i Giudei, forse riconoscenti perché li avevo liberati da Pompeo.
Intanto il popolo aveva preso dei tizzoni ardenti e si era diretto verso le case di Bruto e di Cassio per incendiarle, ma venne bloccato dai soldati.
Tempo dopo la Curia (dove era avvenuto l’assassinio) fu murata, le idi di marzo divennero “il giorno del parricidio” e fu proibito convocare il Senato in quel giorno. Nel Foro fu innalzata una colonna di marmo con la scritta “Parenti patriae“, al padre della patria.
Consigli di lettura
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Mi chiamo Cristina, sono nata di giovedì e sono un sagittario!
Mi piace chiacchierare, conoscere persone e sono a mio agio anche a una festa in cui non conosco nessuno. Cerco sempre il lato positivo delle cose e il mio motto è “c’è sempre una soluzione”!
Maniaca della programmazione, non posso vivere senza la mia agenda.
Ho studiato linguaggi dei media e da quasi 20 anni mi occupo di comunicazione per una grande azienda di telefonia.
Nel tempo libero mi piaceva leggere, viaggiare, guardare i film, andare a teatro. Ora invece ho due gemelle di 7 anni che, se da una parte assorbono quasi tutte le mie energie, dall’altra mi hanno donato un nuovo e divertente punto di vista.
Per tutti questi motivi vi parlerò di storie e leggende.