Autori diversi che con ironia, ferocia, critica, malinconia, ci raccontano la nostra estate
Questa è mia madre.
Voi non la vedete perché, conoscendola, sarebbe profondamente contrariata a finire nella discarica del web, senza aver dato il proprio consenso.
Però provate a immaginarla, come chiedeva Roland Barthes ai suoi lettori (lo so, il paragone è pretenzioso), descrivendo minuziosamente la fotografia del “Giardino d’inverno”: l’immagine la ritraeva all’età di cinque anni, e Barthes ce ne parla nel secondo capitolo de La camera chiara[1], bibbia della fotografia evoluta e ragionata, scritta da un semiologo, critico, linguista, che non faceva fotografie (e questo la dice lunga su molte cose).
Mia madre è seduta in spiaggia, in prossimità del bagnasciuga. Ha 25 anni nello scatto conservato in un vecchio album a casa dei miei, i capelli nerissimi, sciolti a coprire parzialmente le spalle, le braccia dietro la schiena a sostenere la diagonale della posa, le gambe piegate ad angolo ottuso verso terra. Mani e piedi, affondati nella sabbia rovente d’agosto, e il collo inclinato, la testa leggermente riversa ad accogliere il sole sul viso.
Quella di mia madre è la posa che le hanno insegnato il cinema, la televisione e le riviste patinate della nonna, durante l’adolescenza: è la postura da diva, da miss, da oggetto in mostra per l’altrui sguardo; quello voyeuristico maschile, quello competitivo e sprezzante femminile, in una recita tanto cara alla tradizione patriarcale dello Stivale (ma non solo), il cui immaginario si è abbuffato nella ripresa del dopoguerra, fra slanci e contraddizioni, degli imput hollywoodiani che arrivavano dall’altra parte dell’Oceano.
Mia madre ha la posa di chi dice: “Guardami! Guarda quanto sono bella!“. Lei ignora da dove le venga questo comportamento innato, sa solo che in spiaggia le belle donne fanno così.
Provate a digitare su google le parole modella e spiaggia. Fra i primi risultati trovate questo.
Ora provate a digitare: attrice e spiaggia. Ecco uno dei primi risultati.
Questa la posa che aveva mia madre in quell’immagine, ed è la posa di molte altre ragazze come lei, di ieri e di oggi, che rispondono alle sollecitazioni del binomio spiaggia e fotografia, pescando nell’inconscio farcito di stereotipi, un modello di comportamento largamente diffuso.
Mi colpì particolarmente, ritrovare anni più tardi, la stessa scena, che da bambino mi risultava tanto familiare, in uno scatto di Martin Parr, sguardo ironico e implacabile, col suo humor tipicamente inglese, sulle cacofonie tipiche della vita quotidiana dell’animale uomo.
La giovane donna da lui ritratta, non è comoda sulla sabbia morbida, ma sul cemento duro e sporco di un luogo di villeggiatura dozzinale, rumoroso e affollato. La figlia gioca “a farla bella”, occupandosi con una spazzola dei suoi capelli; lei la guarda divertita, ma il suo corpo è altrove, occupa lo spazio con l’intento di essere ammirato. Anche se sta giocando con la bambina, anche se intorno tutto sembra distante anni luce dalle locations impeccabili dei rotocalchi, lei esprime l’estate nella sua posa.
La stessa estate ubriaca di becere contraddizioni, cattive abitudini traslocate in villeggiatura e siparietti imbarazzanti, che molti di noi conoscono da un’intera vita.
L’estate dei morti viventi, quella dei cannibali che canta Patti Smith, si ripete ogni anno con le stesse dinamiche grottesche. L’uomo in vacanza è uno zombie carico di stress lavorativo, con le pretese della lucertola o del serpente, che passa con disinvoltura da lunghe mattinate letargiche sotto un sole sadico, alle grandi abbuffate del pranzo, da pennichelle scomode nei fazzoletti d’ombra ritagliati da continui aggiustamenti di inclinazione dell’ombrellone, a un bagno ristoratore che prepara all’abbuffata serale, in un ciclo che si interrompe solo con la fine tragica e ineluttabile delle ferie.
E in questo intervallo di tempo, fuori dal proprio tempo, l’umanità vacanziera non rinuncia a portarsi dietro la peggiore parte di sé, quella che sembra non poter esibire durante il periodo lavorativo.
Turi Calafato, fotografo siciliano freelance, vincitore del prestigioso Sony World Photography Awards 2015 (per la categoria Mobile Phone, dedicata alle immagini realizzate esclusivamente con la fotocamera dello smartphone) con uno scatto dalla serie A day at the beach (2013-2014), ci mostra gli insediamenti temporanei dei villeggianti sulle spiagge siciliane, come inquietanti scene del crimine: sporco, degrado e morti dormienti ovunque, devastati dall’accumulo di sollecitazioni e frenesia quotidiana, che si traduce in una sgraziata e prepotente noncuranza delle comuni norme, non scritte, di buon gusto e civiltà.
Ritroviamo altrove, nell’Inghilterra degli anni ’80, lo stesso atteggiamento, lo stesso balletto di pennichelle godute con la pesantezza del sonno eterno, grandi corse ai buffet dei ristoranti e un continuo marcare il territorio, colonizzarlo, come bestie concitate e impazienti, usando bambini a briglia sciolta e sporcizia.
Last Resort (1983-1985) di Martin Parr, è un lavoro che ha fatto scuola, col suo sguardo critico ma fortemente ironico sulle brutture della società migrante dei vacanzieri. Due scatti emblematici riassumono perfettamente il grado di abbrutimento sociale, che va a cozzare con il concetto stesso di riposo e pace. Il primo, una delle immagini più famose del reporter inglese, mostra l’assedio di adulti e bambini a un punto di ristoro, dove bibite, panini, hot dog ed enormi dispenser di salse colorate, diventano il terreno di scontro per smorfie rabbiose, sguardi catatonici e un senso generale di fastidio e rumore. L’altro mostra due bambini, uno addormentato e l’altra intenta a giocare, all’ombra di uno scavatore cingolato, che quasi somiglia a un carrarmato in disuso: intorno un recinto di sacchetti vuoti, indumenti e giocattoli, in progressiva espansione. Alle loro spalle vediamo passare, completamente vestito, giacca e pantaloni lunghi, un passante brizzolato con le mani dietro la schiena che procede per la sua strada, lasciandoci il dubbio della reale stagione in cui è stata realizzata la fotografia
Siamo negli anni ’40, una domenica pomeriggio a Coney Island.
Weegee in quegli anni è lo stereotipo del reporter d’assalto, col suo lampo al magnesio, isola brutalmente i soggetti nel nero cupo delle notti newyorkesi: prostitute, morti ammazzati, malviventi ubriachi, nessuno sfugge al suo fiuto da segugio, che bracca le auto della polizia o le ambulanze, per arrivare primo nei luoghi dove nascono le notizie più succulente. Quella domenica il reporter d’assalto sale sulla torretta del bagnino e comincia a fare lo scemo, a gridare e ballare, per attirare l’attenzione di un oceano pazzesco di persone. Molti si voltano, lo guardano curiosi tenendo il braccio ad arco sopra il viso per ripararsi dalla luce accecante del sole, e lui ferma il mondo con un click e fa la storia del medium.
Quella di Coney Island è un’icona dell’opprimente e soffocante attitudine umana al gregge, al branco. Il senso di horror vacui è totale, la mandria di persone si perde oltre l’orizzonte soffocando chi guarda nella vertigine di qualcosa che potrebbe non avere fine. Penso a Golconda di Magritte, alla perdita dell’individualismo, delle proprie specificità, a favore di un pascolare e ruminare animale dentro a un recinto mentale invisibile. L’estate è anche questo. Scegliere gli altri piuttosto che il benessere.
Pensiamo alle adunate acquaginniche immortalate da Olivo Barbieri in uno dei suoi ultimi lavori, Adriatic Sea (staged) Dancing People!: il fotografo emiliano sceglie il punto di vista prediletto di molta della sua produzione artistica, ovvero quello dall’alto (in questo caso da un elicottero), a volo d’uccello e ci mostra, facendone una sintesi attraverso la distanza e la rielaborazione del colore, la moltitudine di bagnanti, nel tratto tra Vasto e Ravenna, intenti in coreografie organizzate o inconsapevoli date dalla ripetizione di gesti comuni, rendendoli simili a tanti minuscoli soldatini, dentro un panorama di plastica.
O al contrario le vedute di Massimo Vitali, altro poeta delle moltitudini, che nel dare uno sguardo complessivo di un ambiente umanamente popolato, riescono a isolare singoli gesti ignari e di conseguenza naturali, con le relative cadute di grazia o i peculiari tratti comici.
La fotografia delle vacanze estive offre molti spunti di riflessione e spazio all’ironia, in certi casi feroce o palesemente critica, come nei lavori che abbiamo appena visto; mentre in altri l’approccio è più delicato, sensibile ed empatico. Quello che viene fuori spesso è un ritrovarsi in certi gesti e atteggiamenti, un sentirsi parte di una specie che cerca sempre di portarsi dietro la propria casa, più o meno a livello materiale, ma soprattutto a livello ideale. E nel farlo, in determinati momenti, riesce ad esprimere qualcosa che si avvicina alla poesia e sa lasciarci il sorriso sulle labbra.
Sicuramente è il caso di Love Camping, serie fotografica di qualche anno fa, nata dal sodalizio fra Beatrice Mancini e Paola Fiorini, che si è aggiudicato nel 2011 il primo premio Portfolio Italia – Gran Premio Epson – Kiwanis. Il lavoro è di stampo seriale e tassonomico, le foto sono montate in dittici e raccontano gli amanti del campeggio, attraverso il loro ritratto messo in dialogo con oggetti, sistemazioni e abitudini che ne caratterizzano lo stile di vita delle singole situazioni di villeggiatura. Quello che viene fuori è un’umanità semplice, serena, ma al contempo estremamente variegata e complessa nel vissuto che lascia trasparire dai pochissimi elementi a disposizione.
Lo stesso si può dire del bel lavoro aperto di Petrut Calinescu sulle estati del Mar Nero (The Black Sea, 2000-2016), dai toni a tratti ironici e a tratti malinconici dove, le contraddizioni del luogo, non fiaccano né scoraggiano la voglia di vacanza e di relax dei tanti avventori delle località che si affacciano su questo enorme bacino interno, come possiamo evincere dalle parole dell’autore.
Il Mar Nero: misterioso, minaccioso e mitico. È al centro di secoli di guerra, turbolenza e dramma storico. Un mix di regimi totalitari e di giovani democrazie, un piatto di fusione di minoranze etniche. La regione del Mar Nero è un punto di convergenza per tre civiltà molto diverse: l’Europa, l’Asia e il Medio Oriente. Ma a prescindere dalla loro nazionalità o status sociale, trascorrere una settimana di vacanza sulle rive del Mar Nero è un sogno comune.
(Petrut Calinescu)
Che è un po’ come dire che alla fine, qualsiasi sia la nostra storia, i retroscena delle nostre vicende personali, l’estrazione sociale, la razza, la nazionalità, come sosteneva Edward Steichen nella mostra fotografica che l’ha reso famoso, facciamo tutti parte della stessa famiglia, quella dell’uomo. E per certi versi, è vero.
Se guardo la foto del signore anziano, che osserva attento la risacca morbida che anima la superficie d’acqua, scandita in secondo piano da susseguirsi di piloni di cemento, incerti sulla propria natura come puntini di sospensione che vanno scomparendo oltre il frame, ecco, lì rivedo mio nonno, quando d’estate passava ore a guardare l’acqua come se dentro potesse trovarci chissà quale tesoro o risposta. Le mani sulle cosce a sfiorare le ginocchia con le dita, la schiena curva e un fare assorto di chi sta osservando oltre ciò che gli occhi riescono a vedere. Forse cercando qualcosa negli anni passati, forse immaginando altro che ancora deve arrivare.
Un ultimo pensiero legato a un lavoro fotografico di cui ho scritto in passato, utile in questo lento riconciliarsi con l’idea di vacanza e di estate.
Ho 6 anni, è l’ultima settimana d’agosto sull’Isola di Sant’Antioco.
Ho 6 anni e mia madre mi tiene in braccio, sciacquandomi i piedi in riva al mare, mentre stringo in una mano un piccolo setaccio azzurro.
Un attimo dopo siamo nell’auto dei miei genitori e appoggio la fronte al finestrino, mentre il caldo afoso dell’abitacolo, coperto fino a pochi minuti prima da un parasole a forma di Ray Ban, scivola sulla mia pelle ancora bagnata increspandola e quasi mi addormento per il torpore.
Nella casa delle vacanze profumi di pastella fritta e pesce pescato la mattina stessa, mio nonno che sale le scale con due fiaschi di vino e un vociare fresco riempie le finestre della cucina.
Poi passano gli anni e quel mare, quei giochi, paletta, secchiello e setaccio, diventano sigarette che non so fumare e stereo a pile alcaline che regalano pezzi di rock buono, dei Guns n’ Roses e pochi anni dopo dei Nirvana, trovando nella lotta e nel solletico con le amiche abbronzate, un palliativo per le prime pulsioni sessuali.
Sembra impossibile, guardando i paesaggi interiori di Stefano Parrini, pensare che sia qualcosa che non mi riguarda. L’estate che ci racconta è l’estate di mio padre, la mia, quella di quasi tutte le persone che conosco, quella che attraversa le mode e i tormenti da classifica e supera le marche di gelato e l’odiosa questione del tempo che passa.
Queste immagini sono strade di cui non si vede la fine e non c’è il conforto di una mappa per decifrarle, per cui l’unico approccio possibile, che sembra anche quello che ha mosso l’autore, è l’istinto. Le stratificazioni di doppie esposizioni catturate con la Holga (strumento dall’incerta pre-visualizzazione e quindi prodigo di sorprese) e amalgamate su sfondi ad acquarello, portano il racconto in una dimensione parallela dove nascondiamo i segreti delle piccole cose che, come fotografie, la luce ha impresso dietro ai nostri occhi ingordi. È uno sguardo a posteriori quello di Parrini, una lettura del ricordo in chiave visiva, e i suoi Appunti Estivi sono annotazioni, sbavate dalla salsedine di colori remoti.
Non riusciamo a toccare questa pelle bruciata dal sole, a incontrare uno sguardo o baciare un sorriso: tutto è lontano e impalpabile, i volti restano nascosti nei contrasti del chiaroscuro, le doppie esposizioni li rendono presenze distanti.
Tutto sfugge e si disgrega, è come se ci rapportassimo a qualcosa di definitivamente perduto, come i giorni ormai passati. Noi non siamo lì, non possiamo, è un viaggio senza risposta e senza ritorno.
Questa serie fotografica ha il sapore di un addio, qualcosa ripensato in un secondo momento, quando ormai le foglie fuori si sono ingiallite, le sciarpe nascondono il disegno del nostro umore sul viso e restiamo in bilico fra due sensazioni: il tiepido languore del restare a contemplare il passato, come fosse brace dentro a un camino, o la spinta insicura del guardare avanti e affrontare le sfide di un nuovo anno.
E forse era questo che vedeva mio nonno, dentro al mare.
“Tutti al mare, tutti al mare
mamma chiama i bambini per farmi giocare
con loro sul mare ma riesco a fuggire.
e ogni tanto mi accorgo che babbo
si perde a guardare le donne del mare
tutte nude, tutte al mare.
mamma non vuole comprarmi la noce di cocco
e mi porta a bagnare la testa con l’acqua di mare,
che il sole comincia a scottare.
Poi tira fuori i panini con l’olio e col sale, con la pipì del cane,
buttalo, buttalo in mare,
e sono a sedere sulle ginocchia del mio più forte zio…
quello che a forte dei marmi ha vinto una gara
di tiro al piattello, ed una di ballo liscio
e che oggi è venuto con noi qui al mare
e c’è anche la zia che rimane a guardare
mentre noi ci tuffiamo nel mare
perchè lei dice che oggi il bagno non lo può fare
e nella testa ha la rima micidiale delle canzoni italiane
che sono state scritte tutte sulla riva del mare
tutti al mare, tutti al mare
ad affogarci nel mare…”
(Virginiana Miller, Tutti al mare)
[1]R. Barthes, La camera chiara, Torino, Einaudi, 1980, p65-77.
Classe 1980. Foto-ricordi per notturni di penna, amici di vino e biscotti salati. Amo la musica da quando ero bambino, amo l’arte da quando sono diventato adulto. Nel mezzo ho sempre scritto.
ottimo. piaciuto molto.
lo dico da osservatore. e da fotografo – malgrado la nota a pié di barthes. segue sorriso…
e seguirebbe una gran bella chiacchierata. che faremo alla prima occasione. ciao!
Grazie di cuore, per Barthes (eheh), il sorriso e la chiacchierata non vedo l’ora Efrem!