Matria. Storia della Sardegna, episodio 6
Continuiamo il racconto sulla storia della Sardegna, da romana a bizantina.
La Sardegna provincia di un impero
“Caralis si distende in lunghezza ed insinua fra le onde un piccolo colle che frange i venti opposti. Nel mezzo del mare si forma un porto ed in un ampio riparo, protetto da tutti i venti, si placano le acque lagunari.”
[Claudiano]
Se torniamo un attimo con la mente allo scorso episodio, ricorderai che l’inizio della dominazione romana era stato segnato dall’incontro/scontro fra una popolazione di cultura sardo-punica e i nuovi arrivati provenienti dalla penisola italica. Da quei primi anni, particolarmente turbolenti, si nota lo sforzo continuo dei nuovi governanti di realizzare un disegno di romanizzazione dell’isola; e col senno di poi, diciamo che arrivati all’epoca imperiale c’erano sostanzialmente riusciti e si può parlare di cultura sardo-romana.
Carales, la città più importante della provincia e grande scalo delle rotte mediterranee, aveva tutte le caratteristiche di una città romana che si rispetti: alla base del colle di Castello, in età augustea venne scavato un anfiteatro capace di circa 10mila posti; c’erano le terme, rinvenute nell’odierno viale Trieste; e l’urbe, dal II secolo d.C., era rifornita da un acquedotto che partiva da Villamassargia e toccava Decimo ed Elmas.
Una lunga strada congiungeva la città a Turris Libisonis, la moderna Porto Torres, situata sulla costa a nord-ovest. Più avanti, fu sempre a Carales che venne organizzato il culto imperiale per tutta la provincia.
Vero è che permaneva la ripartizione dei territori tra Romània esterna – che oltre a Carales vantava città come Turris Libisonis, Nora, Tharros, Sulci, Olbia e Forum Traiani – e Barbària interna. Lo storico Tito Livio narra che ancora all’epoca di Augusto la popolazione degli Iliensi non era stata completamente pacificata e, quindi, tra loro non c’erano dei capi romanizzati e affidabili.
Eppure, i Romani avevano costruito un sistema di strade che arrivava fino ai piedi del Gennargentu e, dislocate nelle zone interne della Sardegna, degli accampamenti militari. Per cui esisteva una relazione, e comunque Roma era sempre stata capace di influenzare le genti con cui entrava in contatto, persino chi stava fuori dai confini dell’impero ne usciva cambiato.
Un melting pot in mezzo al mare
Se Cicerone a suo tempo si era lamentato dei sardi, definendoli selvaggi incrociati con altre “razze” e dotati dei peggiori difetti dei Punici, la situazione non cambiò dopo che lui divenne polvere.
La Sardegna aveva un’anima mediterranea, testimoniata dalle persone che l’abitavano. Esisteva uno stretto legame col nord Africa, rinnovato dagli stranieri che venivano deportati dai Romani, sempre alla ricerca di forza lavoro. È sorprendente l’abbondanza di cognomi greci nelle città costiere.
Nel 19 d.C., durante l’impero di Tiberio, 4.000 liberti vennero espulsi da Roma e, inviati in Sardegna, venne loro assegnato il compito di combattere il brigantaggio. Tra l’altro, questa è l’unica testimonianza certa della presenza di ebrei nell’isola fino all’Alto Medioevo.
Una timida diffusione del cristianesimo
Senza dubbio, il costante passaggio di stranieri aveva contribuito a far giungere in Sardegna i semi di una nuova religione nata in Oriente. Il cristianesimo ebbe, almeno nelle fasi iniziali, un rapporto travagliato con Roma, perché i primi cristiani erano antimilitaristi – in un impero che si reggeva sulle gambe dei soldati e sui generali – e rifiutavano di seguire il culto imperiale.
Sappiamo che tra i dannati ad metalla, costretti a lavorare nelle miniere, ci furono i papi Callisto I, Ponziano e l’antipapa Ippolito. Il Martirologio Geronimiano, redatto quando ormai le persecuzioni sui cristiani erano storia, nomina diversi martiri sardi: Gavino (a Turris Libisonis), Lussorio (a Forum Traiani) e Simplicio. Altri martiri tuttora ricordati in Sardegna sono Saturnino ed Efisio a Cagliari, Antioco e Greca.
Il primo vescovo di Carales di cui siamo a conoscenza è vissuto nel 314, durante l’impero di Costantino. Nonostante il cristianesimo fosse alla fine diventato legale faticò moltissimo a radicarsi in Sardegna: come al solito, le popolazioni della Barbària interna si rivelarono particolarmente resistenti a questa novità, tanto che persino Gregorio Magno in epoca medievale si lamentava del loro paganesimo fatto dell’idolatria di ligna et lapides.
Oltre ai culti pagani, nel cuore dell’isola sopravvivevano tutta una serie di pratiche magiche che facevano drizzare i capelli ai cristiani, o comunque al clero. Si praticavano l’aruspicina, un’arte che leggeva segni divini nelle viscere degli animali, i sacrifici rituali, l’ordalia per giudicare i ladri; e poi c’erano streghe, come le leggendarie bitiae dalla doppia pupilla, maghi e negromanti.
Lo storico del tardo impero, Ammiano Marcellino, menziona in un passaggio della sua opera proprio uno di questi personaggi. Secondo una diceria che circolava, un governatore romano di nome Flavius Maximinus avrebbe ucciso con l’inganno un negromante sardo, molto esperto nel trarre presagi dagli spiriti e nell’evocare le anime dannate.
Il cristianesimo cambia le città sarde
Con la diffusione della religione cristiana nascono anche gli edifici di aggregazione per i fedeli, le chiese. Le città passano così da un’organizzazione monocentrica, nelle quali il fulcro delle attività era rappresentato dal foro, a una policentrica.
Insieme alla trasformazione della fisionomia cittadina si assiste, inoltre, a un rovesciamento dei rapporti tra cristianesimo e paganesimo. Alla fine del IV secolo, l’imperatore Teodosio rese di fatto illegale l’essere pagani con il suo editto di Tessalonica e i successivi decreti teodosiani: venne proibito l’accesso ai templi per i culti e molti di essi vennero distrutti.
Un esempio di questo cambio di rotta potrebbe essere un sito archeologico dell’antica Carales, ritrovato sotto la chiesa di Sant’Eulalia. A quanto pare era stato progettato un nuovo quartiere, spianando un’area occupata in precedenza da un tempio per creare una nuova strada lastricata e due grandi complessi residenziali.
Il declino della potenza romana e l’avanzata bizantina in Sardegna
La storia della Sardegna come provincia romana ha seguito l’andamento prima della repubblica, poi dell’impero, con i suoi alti e i suoi bassi.
A un certo punto, per la precisione nel V secolo d.C., la situazione cambia e l’isola esce dopo sette secoli dalla sfera d’influenza di Roma. Detto questo non bisogna pensare che gli impulsi culturali creati dalla romanizzazione dell’isola scomparvero: tutt’altro, erano destinati a permanere nel corso del Medioevo e delle epoche successive.
Per spiegare cosa sia successo nel V secolo ho bisogno di riprendere alcune informazioni che hai già studiato a scuola.
L’impero romano era separato a nord dai territori dei popoli “barbari” da due confini naturali, i fiumi Reno e Danubio. Di queste genti, le più temute dai Romani erano le tribù che vivevano oltre il Danubio, come i Goti, i Burgundi, i Vandali e gli Alani per citarne alcuni.
Non voglio allontanarmi troppo dall’argomento principale e farti addormentare, sappi solo che queste tribù erano riuscite a infiltrarsi nel tessuto dell’impero e i loro capi a ottenere dei privilegi. Quando il presunto governo ufficiale tentennava a dare questi privilegi ai capi, partivano i saccheggi.
Inizialmente, il fenomeno ribattezzato come Invasioni barbariche iniziò nella parte orientale dell’impero, ma tanto fecero i governanti dell’Oriente che riuscirono a far spostare queste tribù sempre più a occidente. Fu così che Roma venne saccheggiata, prima dai Goti di Alarico nel 410 d.C. e poi dai Vandali di Genserico nel 455.
Ma i Vandali non si erano limitati a questo. Già 15 anni prima erano arrivati in Africa passando per lo stretto di Gibilterra e avevano preso Cartagine, rendendola la capitale del regno vandalo. Nel periodo successivo al sacco di Roma, tra il 456 e il 460 d.C., i vandali presero possesso anche della Sardegna, con buona pace dei popoli dell’interno, sempre fieri e poco accomodanti, e degli aristocratici romani fuggiti in Sardegna a più riprese per scampare alle invasioni dei popoli germanici.
Il regno dei Vandali
“Tale isola, che è grande e fertile […] era allora vessata dai Mauri che vi abitavano […] Parecchi anni prima, infatti, i Vandali avevano mandato in Sardegna, confinandoli con le loro donne, alcuni pochi di quei barbari, con i quali erano in contrasto, e costoro si erano impossessati della regione montuosa vicina a Caralis, e dapprima erano vissuti saccheggiando furtivamente gli abitanti dei dintorni, poi, divenuti ormai non meno di tremila, facevano le loro razzie apertamente, senza più preoccuparsi di passare inosservati […] Dagli abitanti del luogo ricevettero il nome di Barbaricini.”
[Procopio di Cesarea]
Ci sono buone ragioni per pensare che l’approdo dei vandali non sia stato pacifico. Non molto tempo fa, nella zona di Olbia sono stati rinvenuti i resti di una decina di navi attraccate nel porto e incendiate nel periodo del sacco di Roma.
Non si può fare a meno di notare che l’annessione della Sardegna al regno vandalo significava, in un certo senso, un ritorno al passato: i traffici erano stati dirottati verso Cartagine e il nord Africa, come era stato prima della dominazione romana.
Una cosa particolare dei Vandali, e dei popoli germanici in generale, era la loro religione. Inizialmente pagani, si erano convertiti a una variante del cristianesimo molto diffusa a quei tempi ma ormai scomparsa: l’arianesimo. Quindi, quando fondarono il regno vandalo in Africa, i vandali di culto ariano si ritrovarono a gestire il clero cattolico.
La soluzione fu di confinare i vescovi cattolici in Sardegna. Fra questi vi erano un personaggio importante, Fulgenzio di Ruspe, che introdusse nell’isola il monachesimo, e il vescovo Feliciano, che portò con sé le reliquie di Agostino d’Ippona, uno dei maggiori filosofi e teologi del cristianesimo.
Conquista bizantina della Sardegna
La dominazione vandala in Sardegna durò quasi un secolo, fino al 533 d.C. A mettere la parola fine fu l’esercito di Giustiniano, che prima sconfisse i vandali in Africa e poi si preoccupò di annettere la Sardegna ai domini dell’impero bizantino.
Sotto i bizantini, Carales divenne il più importante centro economico, culturale e religioso della provincia, che era sottoposto all’autorità dell’esarcato d’Africa. Anche le altre città costiere sarde, Turris, Phausiané-Olbia, Souliks, persino Tharros mantennero una certa vitalità economica e culturale.
D’altra parte non bisogna pensare che i nuovi dominatori ebbero vita facile. C’erano i popoli del cuore dell’isola e i Mauri inviati anni addietro da Genserico, ribattezzati Barbaricini stando alle parole di Procopio di Cesarea. Già nel 535, il magister militum dell’Africa Salomone dovette organizzare una spedizione per fermare le loro incursioni nelle città e i loro saccheggi. Poi nel 551 l’isola passò nelle mani dei Goti di Totila e rimase dominio gotico per un anno.
Insomma, il Mediterraneo e la Sardegna erano in ebollizione. Ma anche la Chiesa cristiana lo era: negli anni tra il 590 e il 604 d.C. fu papa Gregorio Magno, contemporaneo dell’imperatore bizantino Maurizio.
Sardegna bizantina, tra Greci e Latini
Le lettere di Gregorio sono uno strumento fondamentale, oltre che affascinante, per avere un’idea di cosa stesse accadendo in Sardegna in quel periodo. Sappiamo già delle sue preghiere accorate, affinché nell’isola si vigilasse contro stregoni, indovini e pagani adoratori di idoli. Tra le altre cose, pensò bene di spedire un suo notaio ad acquistare un buon numero di schiavi barbaricini per metterli a lavorare in un asilo per i poveri.
Chiusa parentesi, ciò che non deve sfuggire è una tensione religiosa sotterranea della quale la Sardegna era il teatro. Gregorio Magno era un cattolico che doveva interagire con gli eredi dell’impero romano – questo erano i bizantini -, seguaci però di un cristianesimo in lingua greca e che si stava differenziando dalla chiesa latina. C’erano già i semi di quella diffidenza che avrebbe portato allo Scisma d’oriente e nell’isola vediamo convivere queste due varianti religiose.
Greca era la lingua della Chiesa d’oriente, ma anche le élite parlavano e scrivevano in greco. Queste, ce lo fa intendere Gregorio nelle sue lettere, appaiono lontane dai problemi e le esigenze dell’isola, e molto più preoccupate a rifarsi del denaro speso per acquistare i loro incarichi.
Dobbiamo allora pensare che con la dominazione bizantina tutta la Sardegna si mise a parlare greco? In realtà, no. La gente comune continuò a parlare latino come aveva fatto nei secoli passati; o meglio, una lingua romanza in costante evoluzione che possiamo già chiamare lingua sarda.
Abbiamo attraversato il confine sottile fra la tarda antichità e l’alto Medioevo.
Ti parlerò dell’evoluzione e dell’eredità della Sardegna bizantina nell’episodio 7: “Sardegna medievale: la nascita dei Giudicati“.
FontiStoria della Sardegna, dalla preistoria ad oggi – A cura di Manlio Brigaglia ImmaginiArcheologia, Cagliari – Sito Romano impero |
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