I videogiochi in Cina rappresentano un’opportunità di espansione commerciale o una minaccia da censurare? Scopriamolo in questo articolo!
Nelle nostre vite è difficile non avere avuto a che fare con videogiochi e relative console, magari in sfide interminabili con gli amici. Ma possiamo dire lo stesso in relazione alla situazione dei videogiochi in Cina?
Tale domanda, sebbene possa apparire banale, non è così scontata. Nella Repubblica popolare (RPC), infatti, vengono applicate numerose limitazioni ai siti internet, per cui è lecito chiedersi se per il governo cinese i videogames rappresentino un pericolo da contrastare.
Parlando di censure vi rimando all’articolo sul mondo di internet in Cina!
Per di più, pensando alla provenienza dei giochi e delle console che hanno accompagnato le nostre giornate, ci rendiamo conto di come il Giappone, diversamente dalla Cina, abbia rappresentato da sempre uno dei punti di riferimento in questo settore. Oppure pensate alle lingue straniere da selezionare nei vari giochi: al di là di quelle europee principali e del giapponese, quasi mai compare il cinese.
Non bisogna dimenticare, però, che, da qualche anno a questa parte, si sta investendo molto sulle app, scaricabili da chiunque sul proprio smartphone. Anche questo era un campo in cui dominava il Giappone ma, con il successo mondiale di Huawei o Xiaomi, oggi la Cina sta colmando tale gap.
Alla luce di ciò, cerchiamo di capire, quindi, se nel Paese continentale i videogiochi possano essere utilizzati liberamente oppure no. Scopriamo, inoltre, se la Cina, oltre che in quella dei telefoni, si è imposta anche nella produzione dei giochi per smartphone.
Videogiochi in Cina
Ripercorriamo brevemente la storia dei videogiochi in relazione agli eventi che hanno caratterizzato la vita recente della Cina. Solo in questo modo, infatti, sarà possibile comprendere al meglio alcune dinamiche intercorse negli anni.
I primi videogiochi
Negli anni ’70 i videogames si imposero per la prima volta nel mercato globale. Aziende americane come la Atari o la Coleco proponevano le prime console in cui il gioco di punta era il celeberrimo Pong. La Cina, però, visse solo di sfuggita questo boom iniziale a causa della situazione nel Paese.
In quegli anni, infatti, la RPC non era certo avanzata da un punto di vista tecnologico. A ciò si aggiunga la morte di Mao Zedong avvenuta nel 1976, la quale aprì le porte alla riforma economica di Deng Xiaoping. Fu solo grazie a questi interventi che in Cina comparvero alcuni videogiochi arcade e qualche console pionieristica.
Nel 1983, però, il settore videoludico conobbe un periodo di forte crisi, portando alla bancarotta numerose aziende. In questo contesto si affermarono prepotentemente i giapponesi grazie alla NES della Nintendo e a videogiochi ormai classici come “Super Mario Bros” e “The Legend of Zelda”.
Nel frattempo l’economia cinese era decisamente migliorata ma, nonostante le forti richieste di console giapponesi, l’offerta era scarsa. Le tasse di importazione per i videogames, infatti, erano piuttosto elevate, il che scoraggiava le aziende straniere.
Ciò diede il la al fenomeno della pirateria nel settore dei videogiochi in Cina. L’assenza di controlli sul copyright, infatti, permise la nascita di giochi clonati e console tarocche a costi decisamente più accessibili rispetto a quelle originali.
Le preoccupazioni per la dipendenza
Seppur a queste condizioni, i videogiochi in Cina divennero molto popolari e vennero utilizzati ampiamente dai giovani. Forse troppo poiché, soprattutto negli anni ’90, si fecero sempre più insistenti le preoccupazioni in merito alla dipendenza dai videogames. Si notò, infatti, che i ragazzi trascorrevano troppo tempo alla console trascurando gli studi, rendendosi impreparati per la carriera universitaria.
A proposito dell’importanza per lo studio, vi rimando all’articolo sulla scuola in Cina!
Tuttavia non bisogna dimenticare che per questi ragazzi era impossibile interagire con fratelli o sorelle all’interno delle mura domestiche. In quegli anni, infatti, era ancora in vigore la legge sul figlio unico, una politica mirata al controllo demografico nel Paese. I giovani, quindi, non avevano molto altro con cui svagarsi al di là dei videogames.
Ho già parlato di questa politica nell’articolo sul figlio unico in Cina!
La censura
In questo contesto fu inevitabile, nel 2000, la censura dei videogiochi in Cina da parte del governo. Con riferimento alle console e agli arcade, infatti, se ne vietavano l’importazione, la produzione e la vendita. Rare eccezioni in tal senso furono l’importazione della Playstation 2 e di varie console Nintendo.
Queste ultime, come potete vedere nell’immagine di copertina – raffigurante la schermata iniziale di 超级马力欧世界 (Super Mario World) – e in quella qui in basso, vennero distribuite per conto della iQue. Nonostante ciò il mercato era fortemente limitato per via delle restrizioni alle importazioni e al contenuto dei videogiochi.
Paradossalmente, però, i divieti non riguardavano i giochi su PC. Per tale motivo questi ultimi acquisirono sempre più importanza nel Paese, tanto che negli anni si vide la nascita di numerosi internet café in cui era possibile giocare ai videogames senza troppe preoccupazioni.
Questo contesto ha portato con sé due aspetti importanti: la prima si riferisce alla popolarità crescente dei giochi online; la seconda riguarda la consapevolezza degli sviluppatori sulle strategie da adottare.
Come in passato, infatti, i cinesi aggiravano i costi elevati per l’acquisto legale dei giochi attraverso la pirateria. Per tale motivo si decise di produrre giochi gratuiti o a basso costo nelle quali era possibile effettuare delle microtransazioni. Ciò ha portato al successo alcune aziende cinesi tra cui la rinomata Tencent.
L’avvento dei social network ha rafforzato ulteriormente la Cina nel mondo dei videogiochi online. A titolo di esempio, basti pensare che il celeberrimo Farmville altro non è che il clone del gioco cinese 开心农场 (Happy farm).
La nuova dipendenza dei “gold farming”
Se all’epoca delle console la dipendenza dai videogiochi era un problema evidente, con i giochi online la situazione non migliora. Ma se prima le “vittime” erano i giovani annoiati, in questo caso lo diventano i cosiddetti “gold farmers”.
Si tratta di persone che praticano il “gold farming“, ossia la raccolta ossessiva di oro e altre risorse all’interno di giochi per scambiarle con altri utenti per soldi veri o altri vantaggi. Nei Paesi orientali è una pratica molto diffusa e si stima che nella sola Cina sia presente l’80% dei “gold farmers” al mondo.
Il tentativo del governo cinese di arginare il fenomeno lo si trova in una legge del 2009. Qui si vieta lo scambio di monete virtuali per soldi reali ma, tuttavia, è permesso il contrario.
La fine dei divieti
Nel 2015, dopo un allentamento l’anno precedente, i divieti sulle console vennero eliminati. Da quel momento in poi, quindi, le maggiori aziende nel campo videoludico hanno potuto vendere liberamente le proprie piattaforme anche in Cina.
Anche nel Paese continentale, quindi, hanno potuto divertirsi con videogiochi usciti da decenni nel resto del mondo. Un caso emblematico è quello dei Pokémon, i cui primi giochi in lingua cinese, “Sole” e “Luna”, sono usciti nel 2016, esattamente vent’anni dopo i giapponesi “Rosso” e “Verde”.
Non bisogna pensare, però, che ciò abbia portato a una libertà totale. La distribuzione dei videogiochi all’interno del Paese, infatti, è vincolata all’approvazione da parte del governo. Verrebbero sicuramente censurati, tra gli altri, videogames a sfondo sessuale, con presenza di criminalità organizzata o diffamatori nei confronti della RPC.
In Cina, quindi, il mercato dei videogiochi è in forte espansione, soprattutto in quelli online. La censura, adottata anche per combattere la dipendenza, però, esiste ancora. Detto questo non mi resta che salutarvi. Alla prossima!
Classe 1986. All’università ho scoperto la lingua cinese ed è stato amore a prima vista, tanto che da allora ho continuato a studiarla da autodidatta.
Nel blog, oltre a parlarvi della cultura cinese, cercherò di rendervi più familiare una delle lingue più incomprensibili per antonomasia.
Potete contattarmi scrivendo a: m.bruno@inchiostrovirtuale.it