Il silent ban è una pratica poco trasparente che copre le sospensioni provvisorie degli atleti positivi all’anti-doping, ma è un problema in parte sopravvalutato
Qui su Inchiostro Virtuale abbiamo già avuto modo di parlare di doping. Tuttavia alcuni recenti avvenimenti (di cui si parlerà qui) ci inducono ad affrontare il problema da un punto di vista diverso. Il fenomeno del quale si intende parlare, familiare per chi segue il tennis ma poco conosciuto dai meno appassionati, è quello del c.d. “silent ban”.
Le origini del silent ban
Per capire meglio di cosa stiamo parlando bisogna risalire al 2013: durante il torneo di Wimbledon, il tennista croato Marin Cilic, si ritira dalla competizione dichiarando di essere impossibilitato a giocare a causa di un problema ad un ginocchio. Nulla di strano, se non fosse per il fatto che dopo poco esce la notizia che Cilic avesse inventato l’infortunio, per coprire una sospensione provvisoria comminata per essere stato trovato positivo alla coramina, sostanza stimolante proibita, rilevata in un test effettuato sullo slavo nel maggio dello stesso anno.
Questo è un silent ban: non dichiarare pubblicamente la sospensione provvisoria, coprendo il periodo di inattività con un presunto infortunio. Questo almeno fino alla condanna definitiva, che nel caso di Cilic arrivò a settembre: al croato fu inflitta una squalifica di nove mesi (retroattivi dal momento del test), ridotti rispetto i ventiquattro iniziali poiché fu accolta la tesi difensiva, che indicò alcune zollette di glucosio comprate dalla mamma dell’atleta quali contenenti la sostanza incriminata. Insomma, non una somministrazione dolosa o consapevole, elementi psicologici necessari per infliggere le pene più severe.
Un clima di sospetto
Da questo momento si instaura un clima di sospetto molto pesante, a causa del quale, ogni giocatore che si ferma a causa di un problema fisico viene accusato di essere sotto silent ban. Le accuse vengono rivolte a chiunque, nessuno escluso, in particolare i primi della classifica: così qualcuno maligna sugli infortuni di Murray, di Nadal, di Federer e soprattutto di Djokovic, accusato pubblicamente da un opinionista televisivo canadese poco tempo fa. In questo senso nel 2016 fu apprezzabile il gesto della Sharapova di prendersi le proprie responsabilità per l’assunzione del Meldonium®, sostanza divenuta proibita proprio in quello stesso anno (una questione troppo complessa per dibatterne in questa sede), senza nascondersi dietro finti infortuni.
Una tale situazione non era sostenibile, per questo proprio nel 2016 furono accolte con grande favore le dichiarazioni del presidente dell’ITF (International Tennis Federation) David Haggerty, con le quali veniva anticipata una maggiore trasparenza nei casi di sospensioni provvisorie, fino a quel momento coperte dall’omertoso sistema appena descritto. Trasparenza che avrebbe perciò evitato di sospettare di doping ogni giocatore fermo per infortunio.
Il caso di Thomas Bellucci
Nonostante qualche chiacchiericcio sia sopravvissuto successivamente a questo annuncio, seguito anche da un comunicato ufficiale, la situazione sembrava fosse migliorata, ma pochi giorni fa l’ombra del silent ban è tornata ad incombere sul mondo del tennis: il tennista brasiliano Thomaz Bellucci, infatti, è stato trovato positivo ad un diuretico (l’hidroclorotiazide) lo scorso agosto. Ancora una volta la notizia della positività è stata coperta fino al termine del processo, che ha riconosciuto l’involontarietà dell’assunzione della sostanza e ha perciò inflitto una sanzione di soli cinque mesi e per retroattiva.
Quella che potrebbe sembrare una violazione dei propositi di Haggerty è in realtà una deroga prevista dallo stesso Tennis Anti-Doping Programme 2017: il rispetto della riservatezza della notizia infatti sussiste (ai sensi dell’art. 13.3) quando il giocatore rifiuti la sospensione provvisoria, obbligatoria o volontaria che sia (come nel caso di Bellucci).
Questa scappatoia sembra riportare la situazione al punto di partenza, nel quale ogni infortunio legittimava retropensieri di ogni tipo. La vicenda ha suscitato le perplessità di molti appassionati, ma di certo non è il silent ban a minare la già precaria credibilità della lotta al doping. Pur venendo meno la tanto auspicata trasparenza, l’applicazione delle regole attuali prevede comunque il disvelamento – seppur in un secondo momento – dei casi di doping.
Nessun insabbiamento come accaduto in casi passati (si pensi a quello di Agassi, coperto per il suo uso di cocaina) ma una semplice comunicazione tardiva. Le priorità sembrano riguardare più la qualità e la frequenza dei controlli e degli accertamenti, che talvolta appaiono sin troppo morbidi. Così come stona un po’ che, nella lista delle sostanze proibite, subentrino sostanze regolarmente utilizzate dagli atleti fino a poco tempo prima (come nel menzionato caso della Sharapova).
Riflessioni finali sul silent ban
Sicuramente una maggiore trasparenza (come quella annunciata da Haggerty) andrebbe a beneficio dei giocatori ed eviterebbe accuse gratuite e sospetti, che ormai si manifestano anche dopo il più piccolo riposo, fosse anche per due linee di febbre. Di certo però nel complesso la lotta al doping deve affrontare altri ostacoli per recuperare quella credibilità che continua a latitare; fra questi ostacoli – almeno ad opinione di chi scrive – il silent ban figura agli ultimi posti in quanto ad importanza, essendo preceduto da altri di cui si parlerà diffusamente in un altro articolo a tema.
Attualmente l’unica speranza è che il regolamento venga rispettato e non vi siano insabbiamenti verso provvedimenti definitivi, anche se il caso concreto dovesse coinvolgere un giocatore di rilievo, con un rischio di ricaduta dell’immagine di tutto il movimento tennistico. Un caso Agassi è già bastato a mettere in dubbio la buona fede dei controlli, leggere fra vent’anni un’altra confessione riguardo un caso di insabbiamento compiuto dall’attuale sistema di antidoping non sarebbe una cosa carina.
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