“Siamo le ultime di una razza in estinzione.”
Brian K. Vaughan è un tizio estremamente talentuoso. Parliamo di un artista eclettico capace di creare fumetti a sfondo socio-politico come Ex Machina, graphic novel dai toni distopici come Sentinelle d’inverno e la serie Y – L’ultimo uomo sulla terra, storie supereroiche come Runaways, ma anche capolavori come Saga, una space opera con forti suggestioni fantasy. Ah, e non dimentichiamo che ha sceneggiato anche alcuni episodi di Lost.
Insomma, se ci mettessimo a elencare tutto il suo operato, la cosa diverrebbe seriamente lunga. Però un suo recente lavoro va assolutamente menzionato: è Paper Girls.
Si tratta di una serie a fumetti del 2015 e tuttora in produzione, pubblicata da Image Comics, ed edita, in Italia, da Bao Publishing. I disegni sono affidati a Cliff Chiang e i colori a Matt Wilson.
Paper Girls è un fumetto fantascientifico con contaminazioni mistico/esoteriche e fa la gioia di tutti gli anziani rétro un po’ nerd come me perché è ambientato negli anni ’80. Chiang stesso lo definisce come un perfetto incrocio tra Stand by me – Ricordo di un’estate e La guerra dei mondi. E il mondo di riferimento è proprio quello de I Goonies, di E.T. l’extra-terrestre, di Navigator e di Nightmare – Dal profondo della notte, per citare i titoli più famosi.
Ultimamente, poi, stiamo assistendo a un’isteria di massa nei confronti di quel decennio grazie all’uscita di Stranger Things. Ma Paper Girls non è banalmente la versione al femminile di questa serie TV targata Netflix, pur avendone in comune tutto quel meraviglioso mondo, perché Vaughan affronta anche tematiche rilevanti e delicate, soprattutto per quell’epoca, come l’orientamento sessuale, la guerra, le armi, la morte, il futuro, l’alcool, i genitori assenti, l’importanza del presente e la critica ai videogiochi.
Scopriamone di più.
“Siamo come voi. Siamo adolescenti.”
Paper Girls è ambientato a Stony Stream, una cittadina nei pressi di Cleveland, in Ohio. Sono le 4:40 di martedì 1° novembre 1988 e il popolo statunitense ha da poco finito di celebrare una delle sue feste preferite, Halloween. In realtà, in giro ci sono ancora i soliti balordi ubriachi e qualche ragazzo mascherato che trasgredisce allegramente il coprifuoco.
Erin ha dodici anni, frequenta una scuola cattolica e fa bizzarri sogni che vedono protagonista una Christa McAuliffe alata e demoni che amano i quiz a risposta multipla. È sensibile e ingenua il giusto.
Non sembra un tipo dedito a frivolezze. Erin sembra più interessata a una propria, anche se piccola, indipendenza. Infatti, per guadagnare qualche spicciolo, consegna a domicilio il giornale del luogo, il The Cleveland Preserver, prima dell’alba.
Uscita di casa a bordo della sua BMX, Erin si imbatte in un piccolo gruppo di bulli, con ancora addosso i costumi dalla sera precedente, desiderosi di sottrarle uno dei suoi giornali. La situazione viene salvata dalla comparsa di altre tre ragazzine che consegnano il quotidiano come Erin: K.J., la razionale del gruppo che gira con una mazza da hockey per difendersi; Tiffany, la nerd amante di videogiochi e munita degli immancabili walkie-talkie; sigaretta in bocca, la tosta e sfacciata MacKenzie, prima adolescente di sesso femminile della zona ad aver intrapreso questa attività e ritenuta, quindi, un modello da tutte le altre.
Dopo le dovute presentazioni, le quattro paper girls decidono di non separarsi, considerati gli esseri strambi e fuori di testa che la notte di dolcetto o scherzetto sembra aver lasciato. Ottima idea, visto che di lì a poco si imbatteranno in un altro gruppo di strani individui che cercheranno di derubarle…
Questo è, per le ragazze, solo l’inizio di un’avventura ai limiti dell’incredibile e dello psichedelico. Sarà una notte popolata da figure misteriose, creature preistoriche, lingue incomprensibili, oggetti enigmatici, anziani barbuti con T-shirt particolari, marchingegni ignoti, spazio/tempo ribaltato…
Ma dove sono gli adulti? Che realtà è questa? È la fine? E perché?
Neanche a dirlo, Vaughan non risponde a queste domande con il primo volume. È necessario proseguire con la lettura e l’uscita del quarto volume è prevista per metà maggio.
“Non funziona così, Mac. Il tuo finale è il tuo finale, a prescindere.”
Paper Girls non sarebbe così entusiasmante senza questo disegno e questi colori, bisogna dirlo.
Chiang, che molti ricorderanno per la Wonder Woman di Brian Azzarello, ha un tratto volutamente grezzo, stilizzato, sintetico, che riesce a catturare benissimo lo spirito dell’epoca, dal design stesso delle protagoniste fino alle scelte di vestiario e di arredamento degli interni, regalandoci una narrazione chiara e precisa.
L’autore predilige una griglia perlopiù regolare che diviene creativa nelle tavole dei trip psichici e dei sogni di Erin. Di grande impatto visivo, anche se esigue numericamente, le splash page sparse qui e là.
Da sottolineare che il livello del disegno cresce con il procedere della storia: Chiang, infatti, appare inizialmente un po’ più rigido rispetto al suo solito.
Sono i colori saturi di Wilson a enfatizzare le tavole di Chiang, a carpire al meglio la veste cromatica di quel periodo, in un momento storico in cui il colore è stato determinante. È proprio attraverso le tinte acide e i colori da sala giochi che si torna di prepotenza agli anni ’80. Notevole è, a tal riguardo, il flashback di Tiffany che gioca ad Arkanoid.
E fondamentali, dunque, i contrasti di toni per evidenziare una battuta, per fermare o dilatare il tempo della narrazione.
I testi e dialoghi di Paper Girls sono essenziali, taglienti e ironici, adattissimi alle quattro ragazze, e in breve tempo ci fanno avere una delineazione delle psicologie piuttosto accurata.
Al vocabolario moderno e sboccato delle protagoniste, si contrappone quello degli Old-Timers, che mescolano lo slang contemporaneo a espressioni più ricercate di stampo rinascimentale. I Teenagers parlano direttamente una lingua tutta loro che prevede l’uso di ideogrammi, all’apparenza tra il cinese e i geroglifici, ma che ha tutta l’aria di essere un codice cifrato.
“L’immondizia di ieri è un tesoro di domani.”
Paper Girls è un continuo gioco di riferimenti, citazioni e autocitazioni, e la cosa non dispiace affatto. Dopotutto, è una serie di fantascienza che si impadronisce dell’estetica anni ’80 come connotazione stilistica.
Come in Stranger Things e come nei film prodotti in quel decennio, troviamo tutto quello che significa essere adolescenti a quel tempo: ci sono le corse in bicicletta, i walkie-talkie, la NES, il walkman, l’abbigliamento, le musicassette decorate, i poster, i film fantasy e fantascientifici pieni di robot e alieni. Ma, a differenza della fortunata serie TV Netflix, Paper Girls va oltre al semplice omaggio perché Vaughan evoca, accanto agli emblemi pop, anche le paure (l’AIDS, la guerra atomica), le tragedie (il disastro del Challenger), la politica (il sogno di Erin con Ronald Reagan), la famiglia (genitori assenti per motivi differenti), l’omofobia.
Dunque, gli anni ’80 non sono solo elementi che fanno da contorno, ma sembrano più un mezzo tramite il quale parlare di altro, dalle tematiche elencate poco fa, passando per il valore del linguaggio, fino ad arrivare al rapporto tra delle ragazzine più attirate dalla loro autonomia che da flirt con il sesso opposto.
In Paper Girls troviamo una citazione fondamentale: La guerra dei mondi, romanzo di H. G. Wells, del 1898, poi adattamento radiofonico di Orson Welles, del 1938, e nel fumetto di Vaughan ricorre proprio il cinquantesimo anniversario dalla messa in onda di questo programma. La storia, narrata in forma di cronaca, venne interpretata in modo così realistico che una parte del popolo statunitense credette realmente che stesse avvenendo un’invasione di alieni, rimanendone scossa e turbata.
Per chi l’ha letto con attenzione, il romanzo suggerisce l’ipotesi che gli invasori siano, in realtà, una versione molto più evoluta del genere umano, sviluppatasi su un altro pianeta. Vaughan sembra voler riprendere questa eventualità.
E altrettanto importante è il discorso sui viaggi temporali: tornare indietro per cercare di comprendere le problematicità del presente sembra essere al centro della narrazione, l’ambizione che muove tutto il lavoro di Vaughan.
È una storia che utilizza la nostalgia per parlare di nostalgia e che mette in risalto la nostra tendenza a guardare indietro piuttosto che andare avanti (Peggy Sue si è sposata docet), forse perché siamo incapaci di produrre una rappresentazione estetica del presente, forse perché è più facile sostituire l’attuale con immagini stereotipate di un passato più o meno mitizzato.
Insomma, parliamo del costante conflitto che c’è tra conservazione e rimozione nella mentalità collettiva, tra ricordo e un presente ostile perché nuovo e sconosciuto.
E allora, dagli anni ’80 non si esce vivi – sicuro! – ma forse nemmeno dai decenni a seguire se tra qualche anno ci sarà il trentacinquenne di turno con le lacrime agli occhi che scriverà pagine su Beverly Hills 90210 e i Take That.
Hai presente quelle tipe total black, dai capelli rossi? Immaginami estasiata tra dischi, fumetti, film, serie TV, libri, violoncelli. Tra citazioni e suoni, ti farò compagnia, con una tavola di Magnus e una canzone di Fiumani.