Osvaldo

La carriera di Osvaldo, dal punto di vista di chi cercava (e tuttora cerca) un erede di Gabriel Omar Batistuta

Quando è stata scelta la Musica come tema del mese, le possibilità che si sono poste di fronte a me sono state innumerevoli: parlare di canzoni che narrano lo sport e gli sportivi, per esempio; oppure tormentoni mondiali estivi o improbabili (ma orecchiabili) tributi più recenti. La mia competenza musicale però, ferma a qualche anno di pianoforte e di inquisizione musicale (ossia di solfeggio), mi hanno spinto a parlare di un giocatore – pardon, un musicista! – a me molto caro che, nonostante la sua sciaguratezza, ha conciliato calcio e musica: Pablo Daniel Osvaldo.

La storia di Osvaldo

La storia di Osvaldo, dal mio personalissimo punto di vista, parte molto prima di Osvaldo stesso. Ha un anno preciso in cui parte, ossia il 2003. Il 2003 è l’anno in cui rimango orfano di Gabriel Omar Batistuta. “Batigol” è stato il mio indiscusso eroe d’infanzia, non c’è stato suo gol al quale non abbia esultato, a prescindere dalla maglia indossata – quasi sempre la stessa, della Fiorentina – e dall’avversario. Gli stilemi dell’indomabile guerriero che potessero irretire un bambino c’erano tutti: dal look alla forza fisica, alla capacità di sovvertire l’esito delle battaglie, che appartiene solamente ai grandi eroi.

Non entrerò nei dettagli della carriera del bomber argentino (che, nel mio mondo ideale, chiunque dovrebbe conoscere nel dettaglio) perché altrimenti si andrebbe esageratamente fuori tema, quindi si procede spediti.

Dunque nel 2003 Batistuta, dopo un’annata divisa fra Roma ed Inter, durante la quale il logorio fisico gli presenta il conto di una carriera estenuante, abbandona il calcio giocato per dedicarsi al “calcio pagato” dell’emirato qatariota. Di fatto un ritiro che mi priva di Batigol e della convinzione che almeno fino a cinquant’anni avrebbe giocato e poi si sarebbe ritirato, non per cedimento fisico, ma per noia.

A questo punto c’è un posto vacante: la maglia del mio numero 9 ideale viene messa da parte e chissà quando qualcuno tornerà ad indossarla. Per qualche anno non ci sono candidature valide. Neanche gli eroi del Mondiale del 2006 riescono a sostituire emotivamente Bati. Anzi il fatto che Toni, suo erede a Firenze, realizzi 31 gol in un singolo campionato (quello 2005-2006), cosa mai riuscita a Batistuta, per me è lesa maestà. Dopo un lustro di speranze ormai perdute, all’improvviso, mi basta leggere una singola frase su un giornale per rifarmi coraggio: “a Firenze c’è il nuovo Batistuta”.

Il nuovo Batistuta a Firenze

Per la prima volta sento pronunciare l’incauto paragone: solo con gli anni avrei capito l’abuso di retorica che spesso questi confronti celano, ma in quel momento l’euforia è troppa e decido di seguire il giocatore di cui nell’articolo. Ovviamente il soggetto in questione è Osvaldo. La prima partita in cui ho l’occasione di ammirarlo è Juventus-Fiorentina del 2008, un piccolo saggio su quello che sarebbe stato il giocatore in carriera.

Proprio in quest’occasione la Viola, per la prima volta da vent’anni a quella parte, vince fuori casa contro i suoi acerrimi rivali, con il punteggio di 2-3. La gara sarà decisa proprio da un gol del giovane Osvaldo allo scadere. Ai miei occhi, però, la vera prodezza avviene subito dopo: Osvaldo va dai propri tifosi, si toglie la maglia (gesto che gli vale il secondo giallo e quindi l’espulsione) e poi mima il gesto della mitragliatrice, replicando una delle celebrazioni tipiche di Batistuta. Quella mitraglia per me – come per i tifosi fiorentini e romanisti – è una sorta di Excalibur, di Mjolnir delle esultanze: per imbracciarla bisogna essere degni. Dopo quel gol così importante, Osvaldo mi sembrava il più degno dei successori.

Nel prosieguo di quel campionato continuo a seguire il giocatore e noto enormi somiglianze fra lui e il mio idolo: forza fisica, determinazione, tecnica, in parte il look; difettava solo nella continuità di marcatura (come avrebbe notato più tardi lo stesso Batistuta). Lui stesso dichiara a più riprese di ispirarsi a Batigol. Quella Serie A la chiuderà nel migliore dei modi: splendido gol in rovesciata contro il Torino che vale alla Fiorentina la qualificazione ai preliminari di Champions League.

Quel gol, che sembra un trampolino di lancio, apre invece un periodo di enorme difficoltà per Osvaldo. L’anno successivo non riesce a replicare quanto di buono fatto, tant’è che a metà stagione viene ceduto al Bologna, dove, senza la maglia numero 9 che fu di Batistuta, sembra involuto e svuotato della carica agonistica che aveva a Firenze. Non passerà molto e sarà spedito in Spagna all’Espanyol. Dopo questa cessione penso che non sentirò più parlare di quel giocatore che mi aveva illuso di poter dare un seguito a quanto fatto da Batigol.

Lo chiamavano Metralletta

Passano un paio d’anni, ormai avevo quasi dimenticato che esistesse un giocatore di nome Osvaldo nel calcio professionistico, ma verso fine stagione iniziano le prime bombe di quell’enorme spettacolo che è il calciomercato. Una notizia mi lascia estremamente interdetto: molte squadre di prima fascia del campionato italiano sono interessate ad Osvaldo. Inizio a domandarmi come quell’attaccante, scartato da una squadra di medio-bassa classifica come il Bologna, possa aver attirato l’attenzione di così tanti club italiani molto prestigiosi.

Mi documento un po’ su Internet e scopro che in Spagna l’italoargentino è esploso: segna con maggiore continuità ed è il trascinatore della sua “equipo”. Ricordo un titolo di un giornale spagnolo che, di fronte all’ennesima prestazione maiuscola di Osvaldo, ribattezzò il giocatore “Cristiano Rosvaldo”, in evidente assonanza col fuoriclasse portoghese Cristiano Ronaldo. Ma il soprannome che si è guadagnato in terra iberica è un altro: Metralletta, ossia mitragliatrice, mitraglietta, perché il vizio di esultare come il suo, il nostro, idolo non se l’è tolto e, a quanto pare, è tornato ad esserne un degno “possessore”. Alla fine di quella sessione di calciomercato Osvaldo finirà alla Roma. Come Batistuta. A quel punto la scintilla si riaccende.

La seconda chance in Italia

La prima cosa che faccio è comprarlo al fantacalcio, anche se certezze sulla sua resa nella Serie A non ci sono. Pablo Daniel non delude e disputa un buon campionato, ma non mi illudo. L’ho già fatto e quindi sto attento. Seguo con attenzione l’inizio del suo secondo campionato da romanista. Dopo la prima partita con i giallorossi non rimango deluso: gol in sforbiciata, fondamentale nel quale dimostrerà di eccellere (probabilmente negli ultimi anni solo il cileno Mauricio Pinilla si è dimostrato superiore in questo particolare gesto tecnico).

Ricordo ancora l’illusoria rovesciata contro il Torino, perciò resto ancora cauto. Voglio aspettare un’altra partita almeno per capire se anche stavolta dovrò rimanere deluso. Seconda di campionato, contro l’Inter: gol con un pallonetto chirurgico. Discussione chiusa: Osvaldo si è rimesso in scia a Batistuta. La resa in campo continuerà ad essere molto buona, tanto da valergli la convocazione con la Nazionale Italiana, per la quale aveva già giocato nelle selezioni giovanili.

In questo suo secondo tentativo di carriera in Italia, non è solo il dato calcistico ad essere interessante, ma anche la dimensione umana di Pablo Daniel, che lo porta ad emanciparsi dalla semplice etichetta di emulo di Batistuta. La nomea di testa calda lo ha portato ad essere accostato spesso a Balotelli, ma con quest’ultimo ha poco a che vedere. L’italoargentino, sin dalle prime interviste da giocatore della Roma, dimostra di essere interessato a letture di una certa levatura e alla musica rock e va oltre le solite frasi standardizzate che ci vengono propinate in conferenza stampa. Questo suo modo d’essere cerca di essere evidenziato anche dal look, ormai più tendente a Johnny Depp che a Batigol.

Una carriera tra alti e bassi (soprattutto bassi)

Eppure, nonostante questa indole, la sua istintività prevarrà più volte e ne condizionerà la carriera. Il primo campanello d’allarme, forse, è un episodio che coinvolge lui e il (semi)connazionale Lamela, nel suo primo anno romano. All’intervallo di una partita, infatti, Osvaldo colpirà il compagno, reo di non avergli passato un pallone in una situazione di gioco particolarmente invitante. Ancora peggio quanto accade l’anno successivo: dopo essere stato squalificato per tre giornate a causa di una gomitata sferrata ad un avversario, la furia dell’oriundo (fortunatamente non fisica, in questo caso) si scaglierà contro l’allenatore ad interim Aurelio Andreazzoli, che poco lo aveva tenuto in considerazione nel suo ultimo derby giocato con la maglia della Roma.

Premiazioni disertate e tweet al veleno sanciranno la fine del suo rapporto con la società e con i tifosi, ormai logoro a causa dei suoi colpi di testa prima che per la sua resa in campo, comunque sempre di un certo livello. Da qui inizia l’infinito errare della carriera di Osvaldo, che parte in Premier League col Southampton.

Continuo a seguirlo perché, al netto delle intemperanze fuori dal campo, le sue prestazioni mi hanno lasciato qualche speranza. E in effetti non gioca male, pur non segnando tantissimo, ma ancora una volta la sua esuberanza gli costerà il posto: a seguito di una rissa con il compagno di squadra José Fonte viene messo fuori rosa. Per gli amanti della statistica, segnaliamo che nella sua carriera parallela a quella calcistica, ossia quella pugilistica, l’italoargentino abbia una media di “incontri vinti” da fare invidia a Mayweather. Non a caso Fonte non uscì immacolato dallo scontro.

A seguire ci saranno una fugace apparizione con la maglia della Juventus e un’altrettanto breve parentesi con l’Inter, culminata con una quasi aggressione in campo ai danni di Icardi (reo di aver commesso la stessa leggerezza di Lamela qualche anno prima), che poi sembra essere degenerata in una discussione con l’allenatore Roberto Mancini. La furia di Osvaldo contro i compagni che non passano palloni (che obiettivamente andrebbero passati) probabilmente rivela la generosità del giocatore in campo, un’intolleranza verso una scelta egoistica che lui non avrebbe mai fatto.

L’ultima gioia calcistica che Osvaldo ha provato è stata quella di vestire la maglia della propria squadra del cuore e di segnare qualche gol. Ma neanche il suo amore di sempre è riuscito a prevalere sulla sua istintività.

L’addio di Osvaldo al calcio a soli 30 anni

A soli 30 anni Osvaldo lascia il calcio, riuscendo comunque ad entrare nella categoria di giocatori forse più amata, alla pari con i campioni assoluti: quella dei talenti sprecati, capace di creare un romanzo diverso, ma ugualmente affascinante, rispetto a chi un segno lo ha lasciato principalmente sul campo. La scelta di dedicarsi alla musica rientra perfettamente nel personaggio, incapace di fare qualcosa che non apprezza, anche se questa gli porta soldi e fama. Mentre la mia ricerca di un nuovo Batistuta continua (meno fiduciosa che mai), la sua carriera di rockstar è appena iniziata. Non benissimo per ora, ma probabilmente questo ad Osvaldo non interessa. E sarebbe un peccato se cambiasse idea per tornare al mondo del calcio, perché dopo aver rovinato il calciatore Osvaldo, rovinerebbe anche il personaggio Osvaldo, quello libero e fuori dagli schemi.

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Scritto da:

Lorenzo Picardi

Avvocato e pubblicista, non giudicatemi male. Per deformazione professionale seguo qualunque fatto d'attualità. Non sono malato di sport, mi limito a scandire i periodi dell'anno in base agli eventi sportivi. Ogni tanto provo a fare il nerd, con risultati alterni.
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