La vittoria di Federer agli Australian Open si incastona perfettamente nella storia del più importante torneo di tennis dell’altro emisfero
Gli Australian Open hanno regalato al mondo una delle più grandi imprese sportive degli ultimi anni (se non di sempre), incoronando Roger Federer campione di un torneo dello Slam – il titolo più prestigioso per un tennista – per la diciottesima volta in carriera. Probabilmente a mezzo social chiunque avrà imparato i dettagli principali di questo trionfo (sul quale ci soffermeremo più avanti). In realtà questo risultato si incastra perfettamente nella follia che da sempre ha contraddistinto la mitologia di questo torneo. Pur non avendo la tradizione e la storia di Wimbledon, gli Australian Open hanno saputo ritagliarsi uno spazio nel cuore dei tifosi e soprattutto dei giocatori, che spesso indicano il torneo australiano come il migliore dal punto di vista organizzativo. La strada per arrivare a questi risultati, però, è stata tutt’altro che semplice. Anzi sembra difficile credere che il torneo del quale descriveremo gli albori sia potuto diventare teatro di un momento così importante per il tennis e lo sport in generale.
Per decenni il torneo australiano è stato bistrattato da moltissimi giocatori per la sua scomoda collocazione geografica. Non c’è bisogno di risalire all’anno della prima edizione degli Australian Open, il 1905 (due anni dopo il primo volo del Flyer dei fratelli Wright), per comprendere quanto fosse difficile per i giocatori raggiungere il “Nuovissimo Continente”. Spesso lo Slam oceanico si risolveva in veri e propri campionati australiani, rigorosamente giocati su erba. Altra fonte di fastidio, inoltre, era la collocazione del torneo nel calendario: il torneo oscillava pericolosamente fra il mese di gennaio e quello di dicembre. In particolare, dal 1976 il torneo fu spostato nell’ultimo mese dell’anno.
“Saremo l’ultimo torneo dell’anno, se qualcuno vuole chiudere il Grande Slam, vincendo tutti i major, dovrà per forza venire qui!”
Il ragionamento degli organizzatori fu più o meno questo e si rivelò assolutamente sbagliato: a dicembre i giocatori vogliono godersi le vacanze, certamente non preparare un torneo così impegnativo. Una scelta così sciagurata avrebbe potuto compromettere per sempre il torneo; magari non farlo scomparire, ma sicuramente degradarlo a torneo di rango inferiore.
Eppure è proprio nel 1976 che matura una sorpresa senza eguali nella storia del tennis: Mark Edmondson, numero 212 del mondo, che letteralmente viveva pulendo pavimenti, si aggiudica gli Open d’Australia. “Edo” è ancora oggi il giocatore col ranking più basso ad aver vinto uno Slam, nonché l’ultimo australiano a mantenere nei confini di casa il titolo. Si potrebbe tendere a ridimensionare l’impresa, notando che comunque il torneo era privo di molti dei migliori giocatori, ma Edmondson dovette sconfiggere avversari quali Ken Rosewall e John Newcombe, rispettivamente vincitori di otto e sette titoli dello Slam, per chi volesse avere un riferimento numerico (giammai esaustivo) sulla grandezza dei giocatori. Due anni dopo, nel femminile, Chris O’Neil compirà un’impresa simile, divenendo la prima donna a vincere uno Slam senza essere testa di serie. Solo Serena Williams sarà capace di emularla nel 2007 agli US Open.
Il punto di svolta per gli Australian Open arriva nel 1988. Il torneo era già tornato ad essere frequentato da molti dei migliori giocatori al mondo (come testimoniano le vittorie di Wilander ed Edberg) ma è proprio in quest’anno che la sede della competizione si sposta al National Tennis Park, oggi noto come Melbourne Park. Le strutture all’avanguardia e il cambio di superficie – dall’erba al cemento gommoso – furono fonte di interesse per tutti i giocatori. Da questo momento gli Australian Open vengono percepiti come un torneo dello Slam con tutti i crismi del caso.
Nonostante il cambio di pelle, il vizio di essere un torneo folle è rimasto. Per quanto ogni edizione abbia almeno una storia da raccontare, l’apice dell’imprevedibilità nella storia recente degli Australian Open resta la finale del 2002 fra Marat Safin e Thomas Johansson. Il primo sembra avere la strada spianata verso la vittoria: Johansson è un giocatore mediocre, mentre Safin ha le potenzialità per spazzare via chiunque, come dimostrato nel corso del torneo. Si parla di un ex numero uno, nonché vincitore degli US Open del 2000; è senza dubbio il favorito. Eppure lo svedese riesce a ribaltare i pronostici e a portare la coppa a casa, complice una prestazione non indimenticabile – se non in negativo – di Marat. I più maliziosi sostengono che il russo abbia preparato la partita non sul campo da tennis, ma insieme a tre avvenenti ragazze che erano nel suo box per tifarlo, passate alla storia come “Safinettes”. Safin, dal canto suo, non ha mai ritenuto un problema trascurare gli allenamenti per divertirsi, possibilmente in compagnia femminile. Probabilmente per lui quel titolo dell’Australian Open non è stato un rimpianto.
In un contesto come questo la vittoria di Federer non sembrerebbe neanche l’evento più assurdo accaduto nella storia del torneo. D’altronde la competizione non è nuova alle zampate dei vecchi leoni. Basti pensare che proprio a Melbourne Andre Agassi, alla soglia dei 33 anni, abbia piazzato il suo ultimo sussulto a livello Slam. Eppure quanto accaduto una settimana fa non è paragonabile a nessuna di queste cose. Perché se sembrava impossibile che un giocatore a 35 anni suonati, dopo sei mesi di pausa forzata a causa di un infortunio al ginocchio, ancor più irrealizzabile appariva la vittoria sul rivale di sempre, “topos” indispensabile in ogni poema epico che si rispetti. Per Federer le partite con Nadal sono state sempre un calvario tecnico prima ancora che mentale, dal momento che il dritto mancino e carico di effetto dello spagnolo è il nemico naturale di un rovescio ad una mano come quello dello svizzero. Il maiorchino ha costruito i suoi 23 successi principalmente su questa difficoltà mai risolta dall’elvetico (oltre che sul suo valore assoluto, ovvio). Eppure, quando sembrava ormai troppo tardi, Federer ha trovato le misure a quel colpo, un po’ spuntato dal logorio degli anni ma sempre mortifero, sparando una serie di bordate folgoranti col rovescio. Lo stupore per chiunque abbia seguito tennis almeno negli ultimi dieci anni penso sia stato enorme. È come se dopo secoli di morra cinese, abituati a vedere il sasso che vince sulla forbice, improvvisamente si sovvertissero le gerarchie e la forbice iniziasse a sovrastare il sasso.
Altre considerazioni sarebbero ridondanti, di più sulla finale di domenica non ci sembra il caso di dire dopo una settimana di bombardamento mediatico sull’evento. Preferiamo lasciarvi con un video in calce che riassume i migliori punti della partita di domenica, sperando di farvi apprezzare un pochino di più quello sport che si gioca con una pallina ed una racchetta troppo spesso sottovalutato dalla stampa sportiva.
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