La sfuriata di Serena Williams agli US Open 2018 ha fatto il giro del mondo, infatti ha tirato in ballo il sessismo con troppa facilità
Purtroppo non tutti i tornei vengono ricordati per imprese di campo come l’ultimo Roland Garros, nel quale Cecchinato ha raggiunto una storica semifinale giocando uno Slam da incorniciare; talvolta invece sono vicende che vanno oltre le prestazioni sportive che rubano la scena e che monopolizzano l’attenzione di pubblico e addetti ai lavori. È questo il caso dell’ultimo US Open, che verrà ricordato soprattutto per la sfuriata di Serena Williams contro l’arbitro in finale.
La Williams era approdata all’ultimo atto dello Slam americano sperando di rifarsi dopo la finale persa a Wimbledon contro Angelique Kerber (6-3 6-3). Stavolta ad attenderla c’era la giovane Naomi Osaka, giocatrice giapponese alla ricerca della prima vittoria in un Major. I favori del pronostico sembravano essere dalla parte della campionessa statunitense, ma forse in troppi sottovalutavano lo stato di forma della ragazza nipponica. Fatto sta che il primo set della finale si dimostra a senso unico, con l’Osaka che domina il gioco e travolge la Williams con il punteggio di 6-2. È però ad inizio del secondo parziale che inizia a consumarsi il dramma.
Cos’è successo nella finale degli US Open 2018
Durante il secondo gioco del secondo set infatti la Williams riceve un warning per coaching. Traduciamo per chi non segue il tennis: il warning è un richiamo che l’arbitro fa in caso di condotta scorretta di un giocatore; al secondo avvertimento il direttore di gara infligge un penalty point al tennista redarguito, sanzione che gli farà iniziare il game successivo sotto di un punto (0-15). Nel caso di specie, Serena Williams è stata richiamata perché il suo allenatore (Patrick Mouratoglou, noto anche per la sua Academy di tennis giovanile e per la sua collaborazione con Eurosport) le ha dato indicazioni tattiche nel corso dell’incontro, comportamento vietato dal regolamento.
Serena non prende benissimo il richiamo, dicendo all’arbitro che lei non ha mai barato in vita sua e piuttosto preferisce perdere. Peccato che successivamente Mouratoglou abbia ammesso il coaching, non lasciando dubbi sulla correttezza del warning inflitto dall’arbitro Carlos Ramos. Comunque al successivo cambio di campo Serena cerca di spiegarsi con toni molto pacati con Ramos e l’episodio sembra chiudersi lì e non lasciare particolari strascichi, tanto che Serena riesce a portarsi in vantaggio nel secondo parziale. Proprio quando è in vantaggio, però, la Williams commette un’enorme ingenuità: a seguito di alcuni suoi errori banali la campionessa statunitense non riesce a controllare la propria rabbia per i regali concessi all’avversaria e scaglia la racchetta per terra distruggendola.
Il regolamento è molto chiaro e non lascia spazio ad interpretazioni: in questi casi, chi si macchia di tale condotta deve essere sanzionato con un warning. Essendo il secondo richiamo della partita – come detto in precedenza – è inevitabile (ed inappuntabile) il penalty point inflitto alla Williams. Da questo momento in poi inizia il deprecabile show di Serena.
Serena Williams contro Ramos e il penalty game
La plurivincitrice Slam, invece di accettare la giusta punizione ricevuta e di rimanere concentrata su un match ancora aperto (anche se la Osaka sembrava avere di nuovo l’inerzia dalla sua) inizia a polemizzare con l’arbitro per il primo warning con un tono di un’arroganza che neanche 70 Slam vinti giustificherebbero: Serena pretende delle scuse da Ramos perché lei non bara, piuttosto è l’arbitro che è un bugiardo ed un ladro. L’invettiva dura a lungo ed alla fine Ramos, stufo di sentirsi insultare dalla Williams, applica nuovamente il regolamento ed infligge un penalty game (un gioco perso) all’americana per “verbal abuse”. La Williams impazzisce totalmente e devono intervenire i supervisor per cercare di placare una situazione ormai compromessa tanto nella gestione quanto nel risultato. Proprio con loro Serena dà il peggio di sé, dicendo che lei non farebbe mai niente di scorretto perché è madre (la maternità come scriminante!) e che è stato chiamato coaching solo perché lei è donna e che ad un uomo non sarebbe mai stato contestato. Accuse ribadite anche a freddo dopo la partita.
La cosa avvilente è stato vedere la WTA (Women’s Tennis Association) prendere le parti della Williams, così come altre personalità di spicco nel tennis (ad esempio Billie Jean King, che il sessismo lo ha combattuto realmente), mentre fortunatamente l’ITF (International Tennis Federation) ha preso le difese dell’arbitro.
Cosa possiamo dire in merito alla vicenda
Parlare di sessismo in questo caso è inopportuno e svilisce la tematica. Non ci sono margini: la Williams si è aggrappata a un argomento – quello del sessismo – senza alcun motivo, dal momento che nel caso specifico teoricamente a beneficiare delle chiamate dell’arbitro è stata un’altra donna (la Osaka) e che poi in linea generale le chiamate per coaching non sono molte sia nel femminile che nel maschile. Mouratoglou ha detto che allora si dovrebbero sanzionare tutti perché è prassi comune.
Non ha torto in linea di principio, ma bisogna anche rendersi conto che per l’arbitro non è sempre semplice riconoscere un coaching né è la prima cosa al quale bada in un match. Molto più semplice è applicare le sanzioni quando i gesti adoperati per comunicare sono evidenti come nel caso di Mouratoglou, troppo palesi per non essere puniti (altre volte, invece, i giocatori hanno un vero e proprio linguaggio in codice con i propri allenatori per nascondere il coaching).
Svilire così una tematica delicata ed importante come quella della parità dei sessi, che meriterebbe di essere approfondita in altre sedi e per altri motivi, è un enorme passo indietro e può avere come conseguenza quella di delegittimare chi invece quella battaglia la combatte per davvero per ragioni valide; ci sono persone che non aspettano altro che usare episodi come questo per affermare che il sessismo sia solo una scusa vuota usata dalle donne in qualsiasi circostanza.
In questi casi purtroppo troppo spesso si prendono le difese del grande campione, visto come ambasciatore dello sport e quindi da tutelare per salvaguardare lo sport stesso. Niente di più sbagliato: il messaggio che anche i grandi campioni sbagliano deve passare e deve servire per non giustificare certi comportamenti assolutamente inappropriati.
Da una parte si può discutere della flessibilità di Ramos sul penalty game, ma anche qui le ragioni dell’arbitro appaiono solide: la presa di posizione della Williams è andata avanti a lungo ed ha utilizzato parole (“liar” e “thief”) che mettono in dubbio non la capacità dell’arbitro ma la sua buonafede, cosa di gran lunga peggiore.
La maggior parte degli insulti agli arbitri riguarda la prima, raramente la seconda. Immaginare un disegno criminoso dell’arbitro ed insinuare ciò pubblicamente e ripetutamente, a parere di chi scrive, è onestamente troppo, soprattutto se dopo il tuo allenatore conferma la condotta contestata. Almeno a freddo certe dichiarazioni potevano essere evitate.
Eviterei invece accuse nei confronti di Serena Williams per aver avuto poco rispetto nei confronti della Osaka: ha più volte ribadito che la vittoria della giocatrice giapponese è stata meritata. La polemica non era certamente mirata a destabilizzare l’avversaria, ma era una reazione della Williams per essere stata ferita nell’orgoglio.
Per una donna con l’ego della Williams è quanto di più destabilizzante possa accadere ed in quel momento, probabilmente, il suo unico avversario era Ramos e non l’incolpevole Osaka, autrice di una grandissima partita. Almeno su questo è giusto scagionare Serena Williams, che ha già la sua sufficiente dose di colpe in questa finale degli US Open.
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