Matria. Storia della Sardegna, episodio 5
Nel 238 a.C., all’indomani della prima guerra punica, una Cartagine sconfitta aveva dovuto cedere il passo decretando l’inizio della lunga dominazione romana in Sardegna. Qualche anno dopo, nel 227 a.C. la Sardegna diventò una provincia romana.
Approdo dei Romani: la Sardegna ribolle
“Quest’isola, come sembra, una volta veniva chiamata Ichnusa in quanto il suo perimetro riproduce una figura di molto simile all’impronta di un piede umano.”
[Pseudo Aristotele]
I rapporti tra la repubblica di Roma e gli abitanti della Sardegna non cominciarono sotto i migliori auspici, ma, prima di parlare nel concreto degli avvenimenti storici, conviene soffermarsi sulla civiltà che trovarono gli antichi Romani decisi a rendere l’isola un fruttuoso satellite.
Il nemico di ieri può diventare l’amico di oggi. Dopo il trauma della conquista da parte dei Cartaginesi, si era infatti creato un rapporto stretto fra questi ultimi e gli antichi sardi, tant’è che è ragionevole parlare di civiltà sardo-punica. Non per niente Cicerone usava i termini Sardus e Afer come sinonimi.
Anche le tribù dell’interno, che una certa narrazione vorrebbe isolate sulle alture e nei nuraghi, “incorruttibili” dagli stimoli esterni, erano in contatto coi Cartaginesi: fatto testimoniato dal ritrovamento di monete puniche nei territori di montagna.
L’influenza cartaginese sulla Sardegna fu dura a scomparire e si rintraccia nell’uso della lingua punica e nella religiosità. Anche dopo la conquista romana continuarono a essere venerate divinità come Tanit, Baalshamem, Melqart, Eshmun Merre. Proprio ad Eshmun Merre è dedicata un’iscrizione del 150 a.C. ritrovata a San Nicolò Gerrei; l’iscrizione è fatta in tre lingue: latino, greco e punico.
I primi, violenti, scontri contro i Romani sono intrecciati alle vicende della Seconda guerra punica e non sfigurerebbero se venissero raccontati in un romanzo d’avventura. I particolari di questo Bellum Sardum ci sono giunti grazie allo storico Tito Livio.
Sardegna romana: cronache del Bellum Sardum
Ti chiedo ti rispolverare un attimo la storia che hai imparato a scuola.
Nell’estate del 216 a.C. il famoso condottiero Annibale aveva sbaragliato i romani nella Battaglia di Canne. Resi più sicuri dalla vittoria, quello stesso inverno i principes della comunità sardo-punica si recarono clandestinamente a Cartagine, mossi dall’urgenza di stipulare degli accordi per un’alleanza contro Roma.
Protagonisti del Bellum furono il nobile Ampsicora, originario dell’antica colonia di Cornus, suo figlio Osto e Annone di Tharros. Riuscirono nel 215 a.C. a sollevare le città costiere della Sardegna e a ottenere l’appoggio dei Pelliti-Ilienses, tribù dell’interno. Superato uno sfortunato imprevisto causato dai venti, in seguito si unì allo scontro anche Asdrubale il Calvo in qualità di comandante della flotta cartaginese inviata in aiuto dei sardi.
Questa vicenda è conosciuta come rivolta, e non come rivoluzione, perché alla fine furono i Romani a prevalere dopo la battaglia campale combattuta poco distante da Karalis. Osto era già stato sconfitto e ucciso, poiché aveva fatto l’errore di sfidare l’esercito del console Tito Manlio Torquato in campo aperto senza avere i rinforzi.
Tito Livio ci informa anche della sorte di Ampsicora e ce lo restituisce nella sua fragilità umana: fuggito, quando seppe che Osto era morto si uccise “di notte, perché nessuno potesse impedirglielo“.
Sardi venales
La conclusione della guerra a favore della repubblica romana non fu sufficiente a smorzare gli animi dei ribelli dell’entroterra sardo.
Le rivolte assumevano spesso la forma di insurrezioni verso le città costiere, così gli ambasciatori di queste ultime si ritrovarono costretti a chiedere un intervento militare direttamente al Senato romano. Di reprimere questa grande rivolta se ne occupò Tiberio Sempronio Gracco, console nel 177 a.C., e le conseguenze per la Sardegna furono rilevanti.
Oltre ai morti tra gli sconfitti, i documenti ufficiali riportano che furono circa 50mila i sardi venduti come schiavi nei mercati romani: una cifra da capogiro, se pensi che la popolazione dell’isola era stimata sotto i 300mila abitanti. Una tale offerta fece crollare il prezzo degli schiavi.
Deriva da questo episodio l’infelice espressione Sardi venales, usata anticamente per designare ciò che era di poco valore.
Una lotta fatta di strade e piazzeforti
“Quel popolo, trasportate le proprie sedi sui monti, abitò certi luoghi ardui e di accesso difficile, ove assuefatti a nutrirsi di latte e di carni, perché si occupavano di pastorizia, non hanno bisogno di messi; e perché abitano in dimore sotterranee, scavandosi gallerie in luogo di case, con facilità scansano i pericoli delle guerre.”
[Diodoro Siculo]
Ormai avrai capito che le tribù dell’entroterra erano un boccone indigesto per i Romani, lo zoccolo duro nel quale la penetrazione delle istituzioni romane, malgrado la fatica, non fu mai permanente. Di queste tribù sono rimasti i nomi attribuiti in età classica: Nurritani, Celesitani, Cunusitani, Galillenses, Balari, per citarne alcuni.
I Romani, nel parlare della Sardegna, distinguevano apertamente due macrozone. C’era la Romània, più malleabile, che comprendeva le coste e un retroterra di pianure e colline; e la Barbària, il cuore roccioso dell’isola controllato dai ribelli.
Siamo a conoscenza delle tecniche di guerriglia delle tribù sarde e degli stratagemmi che s’inventavano i Romani per stanare i ribelli. Strabone, lo zio di Cesare, racconta che i primi sfruttavano l’effetto sorpresa attaccandoli mentre si trovavano nei loro santuari, il luogo dove celebravano i riti tradizionali e consumavano i frutti delle razzie.
Roma aveva una strategia ben collaudata per acquisire maggior controllo su un territorio ostile:
- la costruzione di un sistema di strade, che avrebbe permesso non solo di controllare le zone non “pacificate”, ma anche di commerciare, amministrare la provincia e diffondere gli stimoli culturali;
- la creazione di accampamenti militari nelle zone interne, ad esempio Aquae Hypsitanae nei pressi di Fordongianus.
Romània e Barbària, due mondi paralleli
La distinzione tra Romània esterna e Barbària interna non riguardava esclusivamente il livello d’integrazione tra Sardegna e Roma. Permetteva anche di separare due sistemi economici e di sostentamento.
Le parole di Diodoro Siculo menzionate poco fa mostrano che la Barbària aveva una vocazione pastorale e, dunque, c’era la necessità di spostarsi da un territorio all’altro per nutrire gli animali. Ciò è molto importante, perché in quest’epoca nasce la delicata questione della proprietà e della gestione della terra che in Sardegna genera dibattiti ancora oggi.
E ai conquistatori la terra serviva, eccome. La Romània fungeva principalmente da granaio di Roma – come lo era stata per Cartagine -, infatti l’economia era basata sulla monocoltura cerealicola. A ciò si aggiungeva lo sfruttamento di altre risorse: le miniere metallifere, le cave di granito, l’estrazione del sale e la pesca del corallo.
La Romània era inoltre la terra dei commerci, quindi dei porti e delle città. E durante l’età romana si assiste a un mutamento del valore strategico di alcune città.
Città in ascesa e caduta nella Sardegna romana
In particolare voglio parlarti di due città della Sardegna romana con un destino opposto: Karalis e Tharros.
L’ascesa di Karalis nella Sardegna Romana
La città di Karalis (o Caralis) divenne il capoluogo della provincia romana nel 227 a.C., ai tempi della repubblica. Il suo rapporto con Roma è stato sin da subito particolare: infatti, dopo l’iniziale sconfitta dei cartaginesi, Karalis aveva acclamato i vincitori ed è stata con i Romani anche durante il Bellum Sardum.
Questa presa di posizione non fu però senza conseguenze, perché nel 210 a.C. i Cartaginesi devastarono la città e il suo retroterra.
Karalis era una città viva, che faceva attivamente politica e si schierava apertamente nei grandi conflitti di Roma. Sappiamo per certo che i caralitani si schierarono dalla parte di Cesare allo scoppio della guerra civile contro Pompeo Magno, ex-alleato nel primo triumvirato, nel 49 a.C.
I caralitani avevano contribuito alla vittoria di Cesare nella battaglia di Tapso del 46 a.C. fornendogli truppe e rifornimenti. Il nostro non era solo un militare capace, ma anche un abile politico: giunto alla fine a Karalis la promosse a civitas libera.
A rendere Karalis il luogo perfetto per un capoluogo era la sua posizione strategica. Garantiva collegamenti rapidi con Ostia antica, con la Sicilia e Cartagine, quest’ultima diventata ormai capoluogo della provincia d’Africa.
Il declino di Tharros nella Sardegna romana
Tutt’altra sorte ebbe la città di Tharros. Esattamente come Karalis, Tharros era una città intimamente legata alla navigazione che aveva prosperato sotto l’egida di Fenici e Cartaginesi.
Tuttavia con la conquista romana la musica era cambiata, i traffici erano orientati verso Roma: e mentre ciò andava bene per Karalis, Tharros era tagliata fuori, trovandosi sulla costa occidentale. La situazione era destinata a peggiorare dopo la terza guerra punica e la sconfitta definitiva dei Cartaginesi, e per Tharros cominciò un inesorabile declino.
Uomini amati e parassiti: due facce della conquista romana
Quanto di una vita umana si salva dal passare del tempo? Quando abbiamo fortuna, ed è questo il caso, i documenti dell’epoca riportano episodi della vita di singoli individui. Famosi, s’intende.
Sin dall’inizio della dominazione la Sardegna è rimasta invischiata negli affari di Roma e ha conosciuto le sfaccettature del suo potere. A volte, questo potere era incarnato da uomini che sapevano fare politica e lasciavano di sé un bel ricordo; altri erano più detestati della fame e della malaria.
Divenne, per esempio, proverbiale il buon governo di Gaio Gracco, il quale era stato in Sardegna per qualche anno prima di tornare a Roma per candidarsi a tribuno della plebe. Il più giovane dei fratelli Gracchi aveva coltivato una rete di relazioni con gli esponenti più autorevoli delle città peregrinae, cioè le città di provincia dove gli abitanti non avevano la cittadinanza romana.
Strabone era conosciuto per l’orazione Pro Sardis, purtroppo andata perduta, e suo nipote Cesare doveva conoscerla ed esserne rimasto influenzato. Dopo essere diventato console, nel 59 a.C., Cesare promulgò la legge De repetundis apposta per punire i reati di concussione ed estorsione compiuti dai governatori delle province.
Ricordato con grande rispetto era anche Marco Azio Balbo, amministratore della provincia sarda nel 60 a.C. Suo nipote Ottaviano Augusto decise di commemorarlo all’indomani della riconquista della Sardegna dall’occupazione di Sesto Pompeo, il figlio di Pompeo Magno. Fece coniare delle monete con la sua rappresentazione e sull’altra faccia la raffigurazione del Sardus Pater, anticamente detto Babai, una divinità indigena.
L’avvocato del diavolo a.k.a. Cicerone
E sul versante degli uomini disprezzati come non ricordare il propretore Albucio, accusato di concussione per conto dei sardi da parte di Strabone, o ancora Marco Emilio Scauro, figliastro di Lucio Cornelio Silla e proconsole.
Curioso il fatto che nella faccenda di Scauro, accusato di vari abusi e delitti, il vero protagonista non fosse lui ma Cicerone, il suo avvocato difensore.
“La razza più ingannatrice […] è quella dei Fenici. I Punici, loro discendenti, non si sono mostrati, se pensiamo alle molte ribellioni di Cartagine, alle numerose violazioni e rotture di patti, figli degeneri. I Sardi, che discendono dai Punici grazie a un incrocio di sangue africano, non sono stati condotti in Sardegna come normali coloni ivi stanziati, ma come il rifiuto di coloni di cui ci si sbarazza.”
[Oratio pro Aemilio Scauro]
Per Cicerone i sardi, che erano giunti vestiti con la mastruca ad accusare un cittadino romano, erano dei ladri e dei bugiardi. Dei selvaggi guastati dalla moltitudine di incroci tra etnie diverse.
Alla fine riuscì a far assolvere Scauro facendo leva sull’inattendibilità degli accusatori e sul disprezzo covato dai Romani, che al tempo non avevano concesso alla Sardegna alcuna civitas libera.
In un certo senso, questo chiude il cerchio e ci riporta all’inizio dell’episodio. Alla civiltà sardo-punica che si era ribellata all’occupazione romana, alle difficoltà di comprensione e di integrazione tra le culture indigene e quella dei dominatori italici.
Bisognerà aspettare l’età imperiale per poter parlare di cultura sardo-romana, il che non vuol dire che l’isola si adeguò agli standard della città eterna e s’iniziò a parlare il latino forbito di Cicerone. Anzi, il latino parlato in Sardegna era già entrato nella fase di specializzazione che precedeva la nascita delle lingue romanze.
Il processo di romanizzazione raggiunse il culmine nel II secolo d.C., nel momento di massima prosperità dell’impero, prima della stagnazione e del declino.
Te ne parlerò nell’episodio 6: “Sardegna bizantina: la fine del dominio romano“.
FontiStoria della Sardegna, dalla preistoria ad oggi – A cura di Manlio Brigaglia ImmaginiTavola di Esterzili – Wikimedia Commons by L’Alchimista |
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