Racconti di disperate solitudini in un mondo congelato e perduto
Tutto è calmo.
Una calma senza vento e senza eco.
I miei capelli. I tuoi capelli. Meduse e sanguisughe, bestie avide che si nutrono di silenzi e lancette rotte. Somiglia a morire, nell’esatto momento in cui ti senti più vivo, questa sospensione senza un dopo. La languida, disperata attesa, di un piacere che sta lì, dietro l’angolo, che gratta ostinato come un gatto davanti alla porta chiusa. Un detonatore inceppato, l’ultimo invitato mai giunto, Orfeo che volta lo sguardo e lei non c’è più. Che tortura questa assenza di soluzione, per me e per te, che ci hanno uccisi sulla soglia, a un passo dal trovarci.
Sembra senza fine l’inverno di questa giovanissima fotografa che arriva dalla Slovacchia e ha appena 26 anni. Sembra che tutto intorno a lei sia perennemente congelato e immobile, bloccato per sempre in una condizione di bellezza lontana e inaccessibile, qualcosa che è più della barriera sottile di una teca da museo. È una distanza siderale quella che emana ogni sua creazione, complice l’artificio manifesto del digitale, ma complici sicuramente i soggetti utilizzati, che sembrano, con la loro pelle lunare e il vento del nord del mondo nello sguardo, figli legittimi di Ásgarðr.
Pacatamente sensuale, intima, malinconica, eppure incredibilmente à la page, Evelyn Bencicova, mette in scena tableaux vivants, dove il “vivente” si annulla, il corpo umano diventa una cosa fra le cose, dandole la possibilità di disegnare forme e incastri di ispirazione escheriana, che rasentano il paradosso di un espressionismo astratto, fatto con esseri umani, con corpi che sembrano inanimati.
Il senso gelido dell’obitorio ritorna più volte, come un’impressione sottile eppure innegabile, un po’ come mi capitava guardando lo splendido lavoro Awakened di David LaChapelle: è in atto una doppia sospensione, quella dello scatto, che per definizione “congela” il momento e poi quella dell’allusione alla morte e a tutto quello che ne consegue. Prendiamo l’affascinante serie Ecce Homo, dove la fotografa di Bratislava ci presenta una serie di luoghi apparentemente abbandonati che ricordano cliniche, ospedali o ambulatori, dove ammassi anonimi di corpi, che rigorosamente ci negano l’appiglio umano di uno sguardo, restano immobili (l’immobilità sfonda il concetto del congelamento fotografico, quella che permea questo lavoro è un’immobilità totale), pietrificati, come se li avesse disposti con cura un bravo impagliatore o un Gunther von Hagens senza silicone. È il silenzio, sopra ogni altra cosa, quello che percepiamo di fronte a queste costruzioni. Il silenzio immobile di ciò che non è più.
La serie Close porta avanti l’inquietante gioco degli “sguardi negati”, dei visi nascosti, lasciandoci incerti su cosa stiamo osservando, sul tipo di interazione che c’è fra i soggetti (a tratti sembrano volersi ferire vicendevolmente e a tratti sembrano cercare reciproco conforto), che resta sapientemente ambigua anche dove un viso si scopre, si lascia studiare, ma resta sospeso nell’incertezza di un dolore fisico che sembra quasi passato o di un piacere sessuale in lenta levitazione.
I ritratti delle due serie Icon sono degli iceberg minacciosi, che nascondono nella seduzione delle forme, mondi sommersi di indicibile mole, dove una mano sulla pelle gelata può lasciare la sensazione di un graffio, una frangia di capelli sottili come spilli può dare l’insicurezza delle stalattiti e grappoli d’uva e bacche di un rosso pieno e succoso, portare l’ombra scura di una dipendenza o di una schiavitù auto-inflitta.
Anche quando Evelyn, da quell’abnorme sensazione di neve, tira fuori colori, li mette su un piedistallo, li evidenzia isolandoli dalle altre tonalità fredde, non siamo mai in una zona confortevole e rinfrancante: il colore che più degli altri esce dallo spettro ghiacciato dei blu, dei magenta, dei gialli anemici, è un rosso ferino e straziante, che riporta al sangue, come se il dolore fosse l’unica “emozione calda” che ci è dato di provare.
Classe 1980. Foto-ricordi per notturni di penna, amici di vino e biscotti salati. Amo la musica da quando ero bambino, amo l’arte da quando sono diventato adulto. Nel mezzo ho sempre scritto.