Tommy Haas ha annunciato il ritiro (già in preventivo). Con lui il tennis dice addio ad una generazione di giocatori figli di un dio minore
Il mese di luglio, dalla finale di Wimbledon in poi, soffre sempre alcune settimane di stanca, piuttosto parche di tornei di primissimo piano: niente Slam e niente Master 1000 (i secondi tornei per importanza, che mettono in palio 1000 punti utili per il ranking), ma solo qualche 500 e 250, al quale comunque prendono parte giocatori di prima fascia. Fra questi tornei si è svolto questa settimana quello di Kitzbühel (Austria) che annoverava fra i suoi partecipanti il tedesco Tommy Haas. Il teutonico, classe ’78 con un passato da numero due del mondo (nel lontano 2002), ha rimediato una sconfitta con il connazionale Struff e ha annunciato che questa partita potrebbe essere stata l’ultima della sua carriera.
Che la stagione in corso sarebbe stata l’ultima per il buon vecchio Tommy lo si sapeva da tempo, ma solo adesso che la sua chiusura sembra arrivata sto elaborando che la fine della carriera del giocatore rappresenta anche la morte di una generazione estremamente affascinante ed imperfetta della quale il tedesco fa parte. Prima di parlarne concretamente bisogna un attimo entrare nell’ottica degli appassionati di tennis e degli addetti ai lavori.
Un po’ di storia del tennis
La storia del nobile sport discendente della pallacorda, forse per i suoi albori britannici o forse per i continui rimandi a concetti di cavalleria e nobiltà fin troppo abusati, viene spesso dipinta come un succedersi di Regni, ossia di periodi nei quali un solo giocatore ha razziato gran parte dei tornei ed è stato – quasi in esclusiva – in cima alla classifica mondiale. Per poter parlare di Regno, però, la durata di questi domini deve essere di qualche anno, ad occhio e croce direi almeno tre se non quattro. Senza risalire sino al Regno di Bjorn I (Borg), ma rimanendo in una cornice cronologica più recente, dagli anni ’90 in poi abbiamo avuto il Regno di Pete I (Sampras), di Roger I (Federer), in concomitanza questo con una ancor più spietata tirannia sulla terra battuta di Rafael I (Nadal), e in ultimo quello di Novak I (Djokovic), conclusosi ormai un anno fa.
Sempre dal punto di vista in esame, però, può facilmente accadere che fra un Regno e l’altro ci sia un periodo di rivoluzione che non veda un vero e proprio despota, ma una serie di ribelli minori che approfittano del vuoto di potere per ergere il proprio vessillo nel panorama tennistico. Questi lassi di tempo vengono spesso indicati come interregni.
La generazione di Tommy Haas è etichettata come quella che ha sfruttato una di queste finestre temporali, esattamente quella che ha approfittato degli sgoccioli del Regno di Pete I e dell’ascesa non immediata di Roger I. Come se fosse una colpa non affrontare costantemente giocatori che non si chiamino Sampras o Federer! Il periodo in questione è a cavallo fra il secondo e terzo millennio e, proprio durante questo periodo, si palesa al mondo un capolavoro videoludico che chiunque abbia poco più di vent’anni non può dimenticare: Virtua Tennis.
Virtua Tennis: un capolavoro videoludico
Probabilmente anche chi è più giovane lo ricorderà, visto che fino a pochi anni fa sono stati prodotti dei seguiti per console casalinga, ma quando si parla di Virtua Tennis si intende lo storico cabinato che senza troppe difficoltà potevi trovare in uno chalet o in una sala giochi. Difficile trovare un bambino o ragazzino che non abbia dilapidato qualche gettone per cimentarsi in quella prodigiosa riproduzione tennistica virtuale, la cui realizzazione fu elogiata dalla critica dell’epoca. La grafica lasciava di stucco, e anche le spigolosità alle quali i modelli dell’epoca inevitabilmente prestavano il fianco venivano smussate dall’entusiasmo generato da un tale prodigio. Proprio nel parco di personaggi selezionabili offerti dal gioco compariva Tommy Haas.
Tommy Haas tra i personaggi di Virtua Tennis
Posso tranquillamente dire che il mio primo contatto con lui fu virtuale (forse non sono stato l’unico).
Haas inizia ad emergere proprio nel momento in cui il giocatore simbolo del tennis tedesco di quegli anni, Boris Becker, si sta apprestando a lasciare il tennis per dedicarsi ad attività dal suo punto di vista più proficue per lui, come il poker (sbagliando clamorosamente i conti). Repertorio completo, gran tocco e una discreta potenza lasciavano presagire una carriera che almeno in parte avrebbe ricalcato quella del suo “antesignano”. Invece il quantitativo di tornei che si sperava il giovane Haas avrebbe potuto vincere è stato sostituito da un’incetta di infortuni ed operazioni che si faticano ad elencare in maniera esaustiva, una croce che ne condizionerà tutta la carriera.
Chiaramente questo ha aumentato l’empatia con il pubblico e ogni suo ritorno in campo è sempre stato condito da una bella dose di ammirazione, anche per il motivo principale per il quale non ha smesso di giocare: quello di permettere a sua figlia Valentina di avere dei ricordi del papà che ancora giocava, risultato pienamente conseguito.
Proprio i problemi fisici che lo hanno attanagliato, però, hanno ammorbidito le critiche di molti fanatici verso Haas, lasciando il beneficio del dubbio sul reale valore del giocatore. Ci sono stati invece altri giocatori del turpe interregno ai quali, nonostante una carriera ancora più proficua, questo dubbio non è stato minimamente concesso nonostante una carriera falcidiata da incidenti fisici: Juan Carlos Ferrero e Lleyton Hewitt.
Juan Carlos Ferrero e Lleyton Hewitt nei sequel di Virtua Tennis
Anche loro divenuti a me familiari grazie al mitico Virtua Tennis (questa volta, però, parliamo di uno dei suoi sequel casalinghi). Il primo è stato uno degli ultimi ad opporsi alla co-tirannia della coppia Federer-Nadal, vincendo il Roland Garros nel 2003 e diventando nello stesso anno numero uno. Nonostante l’impronta da terraiolo tipica dei tennisti spagnoli, il suo gioco era completo e gli ha permesso di strappare qualche trionfo anche su superfici diverse dalla terra.
Pur se nel suo anno migliore sia stato incoronato sportivo spagnolo dell’anno dal re Juan Carlos di Borbone, molti estremisti lo tengono in lizza per un altro titolo meno prestigioso: quello di peggior numero uno della storia. Sono sempre rimasto affascinato da questa competizione imbastita dagli appassionati; praticamente si cerca il peggiore in una cerchia di individui che hanno rappresentato l’eccellenza nella propria disciplina. Non so in quanti altri sport accada questo. Già è abbastanza tafazziana la ricerca spasmodica del miglior giocatore di tutti i tempi, figurarsi quella del peggior numero uno di sempre.
Non è un caso che molti aspiranti a questo trono vengano pescati proprio da questa generazione, e anche il povero Hewitt è iscritto al novero. Se Ferrero è stato uno degli ultimi ad arrendersi alla dittatura in arrivo, Hewitt è stato uno dei certificatori del crollo di Pete I, grazie soprattutto alla vittoria ai suoi danni agli US Open del 2001, vero anno del declino per Sampras. Non era un tennista che rubava l’occhio; la sua miglior descrizione ce l’ha fornita l’ex tennista Tim Henman:
“Da Lleyton devi aspettarti che tu fai il massimo e lui si prende il match. Così dimostra perché è il numero uno del mondo. Un fenomenale combattente. Se gli sezioni colpo per colpo, non ne ha uno sconvolgente, ma tanti e tanti buoni che, combinati alla sua aggressività mentale e alla determinazione, fanno una miscela vincente”.
Tante volte questa sua vis era eccessiva ed infastidiva gli avversari, ma Hewitt verrà ricordato negativamente soprattutto per aver vinto – sì, vinto – la finale di Wimbledon del 2002. La colpa, condivisa con l’altro finalista David Nalbandian, è stata quella di non aver praticato la nobile arte del serve&volley, strategia inaccessibile e infruttuosa per le doti tecniche dell’australiano.
Andy Roddick: l’ultimo in corsa
Introdotto quest’anno nella Hall of Fame del tennis (qui le sue bellissime dichiarazioni nel corso della cerimonia): vincitore di uno US Open, tre volte finalista a Wimbledon, tennisticamente viene ricordato più per il suo rovescio volubile che non per le sue vittorie, il suo servizio deflagrante e il suo dritto incisivo (un po’ perso nel corso degli anni), marchi tipici dei giocatori americani. Inoltre paga la “colpa” di proseguire degnamente la tradizione americana, reduce dal periodo d’oro di Sampras, Agassi e Courier.
Fortunatamente la sua brillantezza nelle interviste ha affievolito la gogna al quale ingiustamente il povero A-Rod è stato sottoposto. Per il migliore dei contrappassi danteschi, però, adesso gli americani, privi di un giocatore di primo piano, rimpiangono Andy, con tutto il suo rovescio atrofico. Fortunatamente non tutti questi giocatori sono stati travolti dall’ondata di snobismo dei piccoli ribelli dell’interregno.
Marat Safin, tra i più grandi talenti del nuovo millennio
Marat Safin (di cui abbiamo già parlato) è riconosciuto come uno dei più grandi talenti del nuovo millennio e mai del tutto sbocciato, nonostante due Slam e la vetta della classifica mondiale. Gli piaceva il tennis, meno allenarsi e rinunciare ad altri piaceri della vita. Quando però il russo era concentrato sul campo, non temeva nessuno, neanche Federer, sconfitto in una storica semifinale agli Australian Open del 2005 (torneo poi vinto ai danni del bistrattato Hewitt). Eppure come ha avuto modo di dire lo stesso Marat:
Sapete quante volte alla settimana mi sento ripetere: “Avresti dovuto vincere di più”? Ma io me frego. Sono stato numero uno del mondo, fra i top-5 per cinque anni, ho vinto due Slam, due Coppe Davis. Se avessi avuto una testa diversa forse non ci sarei mai riuscito.”
Anche per Safin, inoltre, persiste l’attenuante degli infortuni, un motivo che non torna per caso, ma è figlio di anni in cui la preparazione fisica stava facendo il salto di qualità definitivo che ha introdotto l’atletismo estremo che contraddistingue i tennisti attuali ma non era ancora stata perfezionata, esponendo gli atleti ad incidenti di percorso e valutazioni errate.
Dodici minuti di highlights sono anche pochi, fidatevi
Riflessioni finali su Haas la sua generazione
Con il ritiro di Haas, dunque, il tennis archivia questa generazione di giocatori del quale si preferisce sottolineare il non essere fuoriclasse assoluti piuttosto che evidenziarne il contributo apportato al tennis, assolutamente minore rispetto a quello dei vari Sampras, Nadal e Federer (loro coetaneo anagraficamente ma non storicamente). Ma, comunque, non per questo poco dignitoso.
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