Una panoramica sul rapporto fra fotografia e musica, analizzato attraverso Anton Corbijn, Annie Leibovitz e altri fotografi
Dovete sapere che la creazione di una grande compilation, così come una separazione, richiede più fatica di quanto sembri. Devi iniziare alla grande, catturare l’attenzione…
Questo l’incipit della ricetta per la compilation perfetta, a cura di Rob Gordon, interpretato da John Cusack nella trasposizione cinematografica del capolavoro pop-letterario di Nick Hornby, Alta Fedeltà.
Non entro in merito riguardo alle separazioni, ma posso tranquillamente dire che, anche la creazione di un post di tutto rispetto, richiede fatica e qualcosa che, da subito, catturi l’attenzione.
La musica, soprattutto quella rock (con le sue infinite declinazioni), ha stretto nel tempo, con il medium fotografico, un sodalizio profondo e duraturo, dando vita a collaborazioni spesso così intense da essere paragonabili alle attente e profonde interpretazioni fotografiche che ha dato Ugo Mulas, fra il 1964 e il 1965, degli artisti newyorkesi. L’esempio più commovente del connubio fra rock alternativo e fotografia è sicuramente rappresentato dal sentimento fortissimo che ha legato Patti Smith e il defunto Robert Mapplethorpe. Ma sono molti i grandi nomi della fotografia che hanno prestato il loro occhio per dare un volto a qualcosa di inafferrabile, come la musica: pensiamo all’icona di Jim Morrison realizzata da Joel Brodsky, il Jimi Hendrix di Gered Mankowitz, e i Beatles di Richard Avedon; e ancora la poetessa del punk Patti Smith, insieme a fotografi immensi come Robert Frank o Annie Leibovitz, madre delle più importanti rappresentazioni iconiche della musica e non solo; le cover-art e i “ritratti interpretati” da sua maestà Anton Corbijn, il fotografo dei gruppi rock per antonomasia; per non dimenticare poi il nostrano Luigi Ghirri, di cui amo ricordare gli interni di un’Emilia militante e alienata, suonata dai CCCP nel loro Etica, Epica, Etnica, Pathos.
Sulle orme del buon Nick Hornby, andremo quindi a mettere insieme per l’occasione, la compilation adatta a raccontare una porzione minima di uno scenario di gran lunga più vasto, che vede il medium fotografico muoversi felicemente “a braccetto” con quello musicale. Buona visione e buon ascolto!
Traccia 1: Anton Corbijn – PJ Harvey
Lo scatto, del celebre fotografo e regista olandese Anton Corbijn, risale al 1998, quando Polly Jane, non ancora trentenne, sfoggiava un corpo da ragazzina, incerto sulle lunghe gambe, come una delle traballanti figure-albero di Alberto Giacometti (la più fragile, la più sola) o un idolo filiforme delle tradizione etrusca. A cavallo fra l’amore dolente e affilato come un coltello di To Bring You My Love (1995) e la sensualità tesa, a tratti smaniosa, di Is This Desire? (1999), in anni segnati dal rapporto tormentato e masochista con Nick Cave, con gli occhi cerchiati di nero, lo stesso nero che incombe minaccioso nelle ombre al limitare della strada dietro di lei, si rimette a noi. E somiglia a un angelo caduto, alla fine di un viale lastricato di luce, splendida nel dramma delle sue spalle troppo strette, troppo piccole, chiusa nelle braccia, dolce nell’aria buona che sembra ballarle intorno e limpida di quella pace che ci fa addormentare dopo aver pianto troppo.
…ho percorso terra secca e inondazioni
Inferno e acqua alta
per portarti il mio amore
ho scalato le montagne
viaggiato in mare
sono stata scacciata dal paradiso
in ginocchio per terra
ho giaciuto col Diavolo
maledetto il buon Dio
rinunciato al Paradiso
per portarti il mio amore.
(PJ Harvey, To Bring You My Love)
Traccia 2: Yelena Yemchuk – Smashing Pumpkins
Nel 1998 gli Smashing Pumpkins, dopo il monumentale doppio LP Mellon Collie and the Infinite Sadness, consapevoli di non poter replicare una raccolta di canzoni che diverrà generazionale, decidono di invertire la rotta e spingersi verso la notte di certe terre desolate. Senza perdere la proverbiale morbidezza che ha sempre contraddistinto le atmosfere scritte da Billy Corgan, danno alla luce Adore, un disco bello e controverso, una lunga intima litania dark, dove il bianco e il nero girano vorticosamente contaminandosi a vicenda, come la rappresentazione circolare dello Yin e dello Yang. Il volto del disco e l’intero concept visivo sono realizzati da Yelena Yemchuk, artista di origine ucraina, immigrata negli USA e legata, al di là dei suoi lavori professionali per la moda e il mondo dello spettacolo, ad un immaginario da favola nera, a tratti delicato, a tratti feroce e inquieto. Su Adore costruisce un racconto per immagini, dove ogni esistenza sembra perduta nella propria siderale solitudine, senza possibilità di riscatto: gli stessi componenti della band sembrano preda di questa malinconia perversa, in cui si cullano come se stessero galleggiando a pelo d’acqua, sopra un oceano nero come la pece.
Uno degli scatti dentro al booklet mostra lo scheletro di un albero, piegato dal vento in mezzo a una radura desolata e, di spalle, i tre membri del gruppo, che si avviano a capo chino verso questo monumento naturale che assomiglia a un mausoleo, in una processione privata che ha le peculiarità di un funerale.
Traccia 3: Efrem Raimondi – Giovanni Lindo Ferretti
Gli occhi contengono tutto quello che c’è da sapere di noi.
Il resto è superflua autocelebrazione. Il resto è un accumulo di informazioni ridondanti. Per questo è tanto importante guardare verso la fotocamera, incontrare il fotografo che ti sta guardando.
Efrem Raimondi tratta Giovanni Lindo Ferretti, come un esploratore tratterebbe la piccola isola sconosciuta che scorge all’orizzonte: prima di attraccare la circumnaviga, per capirne le asperità, per scoprire insenature dove poter stare al riparo, per farsi un’idea di quanto tempo occorrerà restare.
Giolindo è una terra segnata da fiumi ormai in secca, sul suo viso ogni solco indica il passaggio di un’era geologica: quella della rabbia provinciale del punk, la militanza, le cose da non dimenticare, la malattia, le sconfinate distese del Gobi, la Mongolia, i cavalli, la solitudine, i rigurgiti cattolici, le storie purtroppo dimenticate. Tutto compone, come una mappa, la vicenda umana di un artista che ha sempre prestato fede, nel bene o nel male, al precetto:
Nessuno può permettersi rimpianti
nessuno può permettersi rimpianti
nessuno può permettersi rimpianti, mai.
(C.S.I, Sogni e sintomi)
Il suo sguardo è tutto ciò che serve conoscere: il porto, prima della tempesta, dove attraccare.
Traccia 4: Annie Leibovitz – John Lennon
L’8 dicembre 1980, Annie Leibovitz, all’epoca reporter di punta della rivista Rolling Stone, viene incaricata di realizzare un servizio fotografico a John Lennon e Yoko Ono. La sua idea è di immortalarli entrambi nudi, ma la Ono è restia. Lennon al contrario, decisamente più accomodante, si spoglia completamente e si rannicchia contro di lei, aggrappandosi al suo viso. Mentre incornicia l’espressione della moglie, quasi imperscrutabile, con un braccio, le affonda l’altra mano nei capelli, baciandola teneramente.
L’immagine è di una potenza inaudita: Lennon si mostra totalmente privo di difese e malizia, limpido nel suo affidarsi alla compagna, salda e sicura come una corteccia, mentre i capelli si spalancano come rami carichi di foglie, intorno ai loro visi. La Leibovitz sarà l’ultima persona a fotografare l’ex Beatle. Appena cinque ore più tardi, all’ingresso del Dakota Building (New York), dove la coppia viveva, Mark Chapman ucciderà il cantante con cinque colpi di pistola.
Una fotografia perfetta non è quasi mai solo un’immagine, nasconde universi in espansione.
Nel gennaio del 1981, lo scatto diventerà la copertina più famosa della rivista americana e forse in assoluto di qualsiasi rivista di carattere musicale, qualcosa di semplicemente perfetto, dove significato e significante si muovono all’unisono, dando prova del potere che ha un esatto bilanciamento di forma e contenuto, unito alla base da una storia senza precedenti.
Sabato sera (24 giugno 2017) a Firenze, davanti a cinquantamila persone, Eddie Vedder, frontman dei Pearl Jam, per celebrare il riconoscimento a Yoko Ono, dopo 46 anni, da parte della National Music Publishers Association, del ruolo di co-autrice di Imagine (notizia arrivata da una decina di giorni), ha eseguito il brano chiave della discografia solista di Lennon. Per un gioco strano del caso, proprio alla fine del pezzo, una stella cadente ha infuocato il cielo passando sopra il palco e lasciando tutti i presenti attoniti.
Mi viene da pensare che sia un modo bellissimo di chiudere un cerchio, rimasto aperto per troppo tempo.
Traccia 5: Guido Harari – Leonard Cohen
Uno degli sguardi che meglio riassume l’incontro, produttivo ed emozionante, tra fotografia e musica di un certo livello e di una certa profondità, è Guido Harari. I suoi scatti si collocano nella sfera del ritratto, ma vanno oltre, legando i musicisti ad un particolare gesto, una location o una situazione minima, non teatrale, che ne amplifichi le caratteristiche interiori.
Fra i moltissimi nomi passati per il suo occhio, ricordiamo Lou Reed, Tom Waits, Vinicio Capossela, Jeff e Tim Buckley, Frank Zappa, Paolo Conte, Manuel Agnelli degli Afterhours e molti ancora. Una delle sue immagini più belle mostra Leonard Cohen che si finge addormentato, con le dita vicino alla bocca, come un bambino, sopra un tavolo di prezioso antiquariato, al cospetto di un grande dipinto e incorniciato da due colonne scanalate: che Harari lo pensasse o no, non posso evitare di legare questa immagine ad una delle più importanti della carriera di questo fotografo, che racconta di un De André addormentato per terra, rannicchiato contro una valigia, durante la leggendaria tournée del 1978 insieme alla PFM. E sappiamo quanto Faber amasse Cohen, e quanto sia oggi prezioso il lavoro di traduzione e reinterpretazione dei suoi pezzi più celebri.
Col senno di poi, con la dipartita di Cohen lo scorso anno, quella fotografia acquista ulteriori significati, assumendo l’aspetto di un commiato e non possiamo che augurare al vecchio cantautore canadese, che quel sonno sia dolce, privo di angoli in ombra e cose lasciate in sospeso.
Ho lottato con alcuni demoni
Erano borghesi e mansueti
Non sapevo di avere il permesso
Di uccidere e mutilare
Tu vuoi più buio
Hineni Hineni
Sono pronto, mio Signore
(Leonard Cohen, You Want It Darker)
Traccia 6: Danny Glinch – Tom Waits
Danny Glinch non ci mostra direttamente Tom Waits, tre terzi della fotografia sono occupati da un riflesso opaco sul cofano di un’automobile (simbolo insostituibile dell’essere americano, mito eterno della vita on the road) del cantante di Pomona, che volta lo sguardo altrove con fare meditativo. L’ultimo terzo dell’immagine si concentra sui tratti e sugli oggetti che lo caratterizzano: l’inseparabile cappello, gli anelli da vecchio rocker, il tatuaggio sul bicipite.
Una lezione di ritratto a tutti gli effetti, che pone l’accento su ciò che non mostra, raccontando l’impalpabile mistero di una figura sfuggente come quella di Waits, compagna di quella voce ruvida e al contempo incredibilmente carica di sfaccettature. Un poeta della strada, polveroso e sgraziato, sotto un cielo da inseguire su quattro ruote, con un braccio fuori dal finestrino e l’altro a scegliere la direzione.
Traccia 7: Mattia Zoppellaro – The Flaming Lips
Mattia Zoppellaro chiude Wayne Coyne, l’eterno Peter Pan del pop più eclettico, e i suoi Flaming Lips, dentro un’irriverente estasi laica: il cantante al centro ha la guancia segnata da una lacrima di sangue fasulla e un piccolo cerchio luminoso sulla testa, come una ridicola aureola posticcia. Gli altri due membri della band si appoggiano a lui, in adorazione di qualcosa che si manifesta sotto forma di una luce bianca artificiale posta sopra di loro. Nient’altro. Ed è più che sufficiente a farci pensare di trovarci nell’anticamera del delirio carnevalesco di unicorni a rotelle e sfere giganti, che sono gli show della combo di Oklahoma City. Lo sappiamo senza che altre informazioni ce lo confermino: quella parete, alle loro spalle, non è che la sala d’attesa del più grande circo lisergico itinerante che sia mai stato tirato su.
Mattia Zoppellaro, ad oggi, è uno degli sguardi “giovani” più interessanti del nostro paese: fra popolo dei Rave e nomadi Irlandesi, fra rock, moda, mondo dello Spettacolo, l’underground di Milano e la fauna della giungla urbana, racconta di tribù in continuo movimento, di esseri umani in moto perpetuo, mossi da un demone o dall’urgenza, come se fermarsi equivalesse a morire.
Traccia 8: Mick Rock – David Bowie, Iggy Pop, Lou Reed
Mick Rock è un’istituzione, forse la più importante in questo contesto.
Pochi vantano nel proprio portfolio una quantità tale di immagini iconiche, ed una longevità di produzione nell’ambito musicale pari alla sua. Meriterebbe un discorso a parte, troppo lungo da fare in questa sede.
Ho scelto di proposito una fotografia, tecnicamente semplice, quasi vernacolare nei toni: non è diversa, specie nell’epoca dei social, da qualsiasi testimonianza delle nostre serate chiassose con cui inondiamo il web. Una fotografia di tre amici che sorridono divertiti davanti all’obiettivo.
Solo che siamo nel 1972 e i tre amici hanno nomi non propriamente convenzionali.
Il primo si chiama David Bowie ed anche se la fotografia in bianco e nero non gli rende giustizia, ha i capelli rossi come il fuoco ed ha pubblicato da poco un disco che diventerà negli anni a venire un’opera immortale: The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars.
Il secondo è Iggy Pop e la sua band, The Stooges, sta per registrare il lavoro più significativo della carriera, Raw Power, che l’amico Bowie deciderà di produrre.
Il terzo dei tre è Lou Reed in procinto anche lui, dopo il successo con i Velvet Underground, di realizzare il suo capolavoro solista Trasformer.
Questa, di nuovo, non è solo una fotografia, è un vero e proprio bignami di storia della musica, che riassume in un solo scatto una delle stagioni più fortunate e influenti della storia del rock. E Mick, come sempre da allora, era in prima linea per documentarla.
Traccia 9: Autumn De Wilde – Eliott Smith
Quale finale migliore per una compilation, se non quello di una riflessione intima e misurata, prima di chiudere. Un inno al tempo che rallenta, si ripiega su se stesso, fino a fermarsi.
Autumn de Wilde, ci racconta Elliott Smith, perso dietro a un palloncino gonfio d’elio (che non riusciamo ad immaginare di un colore diverso dal grigio), mentre si aggira per l’amata/odiata Los Angeles. Il frame di un film immaginario. Il suo sguardo verso il cielo, sul muro la silhouette del suo doppio, proiettata dal sole e stilizzata come un fumetto. La rappresentazione visiva di un silenzio assordante. Di fianco a lui l’ombra dell’albero che non vediamo, ci fa pensare alla quinta scenografica di un film anni ’20 di Robert Wiene. La sintesi è il cuore e la magia di certe fotografie. Ci pensa poi la luce a fare il resto. In questo caso la luce e la voce.
Tutti i tuoi sogni segreti potrebbero avverarsi ora
stai per sempre con le mie braccia velenose
intorno a te
nessuno si prenderà gioco di noi
nessuno si prenderà gioco di noi
piacere d’incontrarti, Los Angeles
(Eliott Smith, Angeles)
Classe 1980. Foto-ricordi per notturni di penna, amici di vino e biscotti salati. Amo la musica da quando ero bambino, amo l’arte da quando sono diventato adulto. Nel mezzo ho sempre scritto.