Da quanti anni esiste il partito comunista cinese? E perché la Cina è un Paese comunista? Scopriamolo in questo articolo!
Quando si guarda alla situazione politica in Cina, non si può fare a meno di notare il ruolo dominante del partito comunista cinese (PCC). La Costituzione cinese, infatti, identifica il Paese con il partito stesso e la sua ideologia, il “socialismo con caratteristiche cinesi”.
In questo contesto non è strano trovarsi di fronte a politiche di censura volte a proteggere l’immagine del partito e della Nazione. L’esempio più eclatante è quello relativo al blocco di internet, in cui siti come Google o Youtube sono completamente oscurati.
In questo articolo, però, non voglio parlare troppo degli aspetti politici in senso stretto. Il primo luglio del 2021, infatti, la Cina ha celebrato i cento anni dalla nascita del PCC. Quale migliore occasione, quindi, per ripercorrere gli eventi principali che ne hanno contraddistinto la vita nell’ultimo secolo?
Partito comunista cinese
Le democrazie occidentali sono nate in seguito a secoli di guerre e trasformazioni. Non potremmo capirne la struttura e il funzionamento, quindi, se pensassimo che sono nate così da un giorno all’altro.
Il ruolo del partito comunista cinese nel tempo merita lo stesso ragionamento: la Cina, infatti, non è sempre stata comunista ma, nel secolo scorso, ha attraversato diverse fasi. Per non parlare del fatto che l’ideologia stessa si è evoluta negli anni; il pensiero di Mao Zedong, ad esempio, non coincide con quello di Xi Jinping.
Vediamo, quindi, senza perdere altro tempo, l’evoluzione del PCC, dai primi anni turbolenti ai giorni nostri.
Il contesto storico
Negli anni ’10 del secolo scorso, la Cina stava attraversando una fase epocale nella propria storia. In seguito alle rivolte dei nazionalisti del Kuomintang (KMT), infatti, nacque la Repubblica di Cina la quale, dopo oltre duemila anni, mise fine all’impero cinese.
Il controllo del territorio, però, era tutt’altro che privo di problemi. La prima minaccia era interna, rappresentata dalla figura di Yuan Shikai (袁世凯), militare e politico assetato di potere. Dopo aver contribuito a rovesciare l’Impero, infatti, instaurò una dittatura e perseguitò i membri del KMT causandone lo scioglimento.
Nel 1916 Yuan Shikai morì ma, se possibile, la situazione nel Paese peggiorò ulteriormente. Nella zona centro-settentrionale, infatti, la Cina viveva anni di anarchia conosciuti come “periodo dei signori della guerra”. Il controllo del KMT – nel frattempo rifondato -, invece, si estendeva nella sola zona meridionale.
Il secondo pericolo arrivava invece dal mare, più precisamente dall’impero giapponese. Nel 1915, ad esempio, cercò di assumere il controllo della Repubblica attraverso il diktat delle “Ventuno richieste”, ma l’obiettivo fallì a causa dell’intervento statunitense.
Nel 1919, invece, il trattato di Versailles, pur eliminando numerosi accordi e privilegi della Germania sulla Cina, sancì che i diritti sulla concessione tedesca della baia di Jiaozhou (胶州) dovessero essere trasferiti al Giappone. In tale contesto il sentimento anti-imperialista della popolazione cinese non fece che aumentare.
L’ideale indipendentista, però, non si riversava nel solo KMT, ma anche in movimenti e partiti socialisti ispirati al marxismo e alla Rivoluzione d’ottobre. Questi, favoriti in buona parte dall’impegno politico di Li Dazhao (李大钊) e Chen Duxiu (陈独秀), rappresentarono le basi per la costituzione del partito comunista cinese.
La nascita del PCC
Sebbene ufficialmente la fondazione del partito comunista cinese (中国共产党) venga fatta risalire all’1 luglio 1921, questa non avvenne prima di ventitré giorni. Il primo Congresso nazionale del PCC, infatti, avvenne a Shanghai dal 23 al 31 luglio 1921.
In questa sede venne discussa la fondazione del partito, approvandone il nome e il programma. L’obiettivo era quello di attuare la dittatura del proletariato, la quale sarebbe stata possibile attraverso una lotta armata che avrebbe rovesciato la borghesia.
Al congresso parteciparono tredici membri delegati, tra cui un giovane Mao Zedong (毛泽东). Come primo segretario generale venne eletto Chen Duxiu, il quale mantenne la leadership del partito fino al 1927.
In quegli anni il comunismo era solo una piccola realtà in Cina. Nel 1922, infatti, il KMT contava già 150.000 membri, mentre il partito capeggiato da Chen non ne superava 1.500 nel 1925. Tuttavia, almeno inizialmente, i due schieramenti erano alleati.
Il partito comunista, infatti, trovò un accordo con Sun Yat-sen (孙逸仙, Sūn Yìxiān), fondatore e leader del Kuomintang, per garantire il proprio appoggio nel raggiungimento dell’indipendenza e dell’unità nazionale. La morte di Sun nel 1925, però, stravolse il quadro politico del momento.
La guerra civile contro il KMT
L’anno seguente il generale Chiang Kai-shek (蒋介石, jiǎng jièshí), divenuto nel frattempo comandante dell’Esercito Rivoluzionario Nazionale, diede il via alla spedizione del nord. Si trattava di una campagna militare in cui i due schieramenti combatterono i signori della guerra per la riunificazione del Paese. Nel 1927, però, Chiang ruppe l’alleanza con i comunisti e con i militanti di sinistra del proprio partito, dando il via a massacri ed epurazioni.
Tali eventi portarono all’inevitabile guerra civile tra le due fazioni durata, nella sua prima fase, fino al 1937. Per tale occasione il PCC fondò l’Armata rossa cinese, con la quale iniziò una serie di rivolte nei confronti dei nazionalisti.
In questi anni la figura di Mao, grazie alle sua strategia militare, divenne sempre più importante all’interno del partito. Dal 16 ottobre 1934 al 22 ottobre 1935, infatti, diede il via alla “lunga marcia”, un’immane ritirata militare dalla provincia dello Jiangsi a quella dello Shaanxi.
Attraverso questa strategia, il PCC riuscì a evitare l’assedio del KMT e a resistere contro le truppe giapponesi, preparandosi per il successivo contrattacco.
Seconda guerra sino-giapponese e scontro finale con il KMT
Dal 1937 il partito comunista cinese e il Kuomintang riunirono le proprie forze per contrastare i nipponici nella seconda guerra sino-giapponese. Questa alleanza – nota come “Secondo Fronte Unito” -, seppur caratterizzata da continue ostilità, durò ufficialmente fino al 1945.
La resa del Giappone pose nuovamente il PCC e il KMT su due fronti opposti. Nell’immediato dopoguerra si cercò di trovare un accordo tra le due forze, ma le trattative non andarono a buon fine e, pertanto, nel 1946 si tornò alle armi.
Il Kuomintang, oltre che dell’appoggio statunitense, vantava ancora un maggior numero di uomini e di armamenti. Tuttavia, senza più il consenso nel Paese e con una scarsa tenuta psicologica, dovette arrendersi all’avanzata comunista.
Nel 1949, in seguito alla caduta della città di Chongqing, Chiang Kai-shek, insieme a circa 600.000 soldati e a 2 milioni di civili, si rifugiò sull’isola di Taiwan. Il partito comunista cinese era divenuto la più grande forza politica nel Paese per cui, l’1 ottobre 1949, Mao Zedong proclamò la nascita della Repubblica popolare cinese (RPC).
I rapporti con il partito comunista sovietico
Nei primi anni della guerra fredda, la Cina si trovò in sintonia con i partiti comunisti nel mondo di cui il principale alleato era, ovviamente, l’Unione Sovietica. L’URSS, infatti, non solo aveva dato un grosso aiuto in termini economici nella costruzione del socialismo in Cina ma, in precedenza, aveva svolto un ruolo decisivo nelle guerre sino-giapponese e civile.
Con la morte di Iosif Stalin nel 1953, però, i rapporti tra i due Paesi si raffreddarono notevolmente. Nikita Krusciov, nuovo primo ministro del partito comunista sovietico, iniziò, infatti, un processo di “destalinizzazione” volto a rimuovere gli effetti del mito di Stalin. Tra i primi provvedimenti, ad esempio, venne allentato il sistema repressivo in atto fino a quel momento.
Mao Zedong, come detto, non vide di buon occhio tali politiche in quanto pensava che lo stalinismo fosse il modello ideale per applicare il socialismo nella Repubblica popolare. I provvedimenti di Krusciov, invece, erano considerati come una “revisione del marxismo”. Inoltre, a differenza dell’omologo sovietico, non ridimensionò la figura di Stalin, affermando che i suoi meriti “hanno la meglio sui suoi errori”.
Le differenze in termini di ideologia e di politiche internazionali portarono, nel 1956, alla rottura tra il partito comunista cinese e quello sovietico, dando il via alla cosiddetta “crisi sino-sovietica”.
Le politiche di Mao Zedong
Mao Zedong, quindi, rimase fedele al modello sovietico stalinista introducendo in Cina l’economia pianificata e i piani quinquennali. In tale contesto, nel 1958, decise di attuare una riforma del Paese attraverso un piano economico-sociale noto come “grande balzo in avanti”.
L’obiettivo era il passaggio da un sistema economico rurale a una società comunista industrializzata e moderna. Tuttavia, nonostante le migliori aspettative, questa politica si rivelò un clamoroso disastro economico. Gli effetti peggiori si tradussero nella grande carestia del 1960 (三年困难时期), in cui si contarono tra i 15 e i 55 milioni di morti.
Il fallimento delle riforme economiche portò a una divisione interna nel partito comunista cinese: da una parte c’era chi chiedeva meno scrupolosità da parte della burocrazia, dall’altra si invocava l’intervento di esperti e di incentivi materiali.
Tale situazione portò, pur mantenendone ufficialmente la carica, all’emarginazione di Mao Zedong dalle posizioni di potere all’interno del partito e nel Paese.
Nel timore di perderne il ruolo dominante una volta per tutte, nel 1966 Mao decise di attuare la “Grande rivoluzione culturale proletaria” (无产阶级文化大革命), con la quale puntava a riaffermare il proprio potere attraverso l’estromissione di oppositori politici e intellettuali.
Nei dieci anni successivi furono numerosi gli stravolgimenti all’interno del partito. Si verificarono, inoltre, un arresto significativo nello sviluppo del Paese e un numero di morti stimato tra le centinaia di migliaia e i venti milioni.
Dopo la morte di Mao
Mao Zedong morì il 9 settembre 1976 e la leadership del partito passò nelle mani di Hua Guofeng (华国锋) che, il 21 ottobre dello stesso anno, mise fine alla Rivoluzione culturale in seguito all’arresto della “banda dei quattro”.
Si trattava di quattro politici cinesi accusati di aver cospirato contro lo Stato nel decennio precedente, per cui vennero processati e condannati. In realtà il PCC decise di addossare la colpa su di loro per non intaccare la figura di Mao e salvaguardare la stabilità interna.
Nel 1981 Hu Yaobang (胡耀邦) divenne il nuovo presidente del partito comunista cinese, ruolo abolito l’anno successivo in seguito alla reintroduzione, a distanza di quasi quarant’anni, della carica di segretario generale del PCC.
Dal 1987, invece, la leadership del partito passò nelle mani di Zhao Ziyang (赵紫阳) il quale, due anni più tardi, si schierò apertamente in favore delle proteste degli studenti in piazza Tiananmen e contro le posizioni prese dal PCC. Ciò portò alla sua esclusione da qualsiasi carica pubblica, agli arresti domiciliari a vita e alla damnatio memoriae.
Dalla morte di Mao, però, il vero potere del partito e del Paese era detenuto da Deng Xiaoping (鄧小平). Costui era un politico che già in passato aveva svolto ruoli importanti per il partito ma che, a causa del suo pensiero di destra, venne epurato ben due volte da Mao durante la Rivoluzione culturale.
Tuttavia venne graziato da Hua che, pertanto, gli riaffidò l’incarico di capo di Stato maggiore dell’esercito, di vice-primo ministro del Consiglio di Stato e di vicepresidente del PCC.
Il socialismo con caratteristiche cinesi
Tra i più fermi critici della Rivoluzione culturale, Deng avviò una serie di riforme volte a superare le politiche maoiste. Queste rappresentarono un punto di svolta per la Cina, poiché permisero la nascita di una nuova ideologia che avrebbe guidato il partito comunista cinese e, di conseguenza, il Paese stesso: il “socialismo con caratteristiche cinesi” o “socialismo di mercato”.
Le politiche di Deng Xiaoping, infatti, si distinsero dal pensiero radicale di Mao per l’apertura della Cina al mercato estero e, pur con delle limitazioni, per la comparsa del settore privato.
In sostanza Deng sosteneva che il mercato capitalistico non dovesse essere rigettato a priori per motivi ideologici se questo avrebbe permesso il raggiungimento della prima fase del comunismo, il socialismo. Per dirla in altre parole: il fine giustifica i mezzi.
La “Teoria di Deng Xiaoping” (邓小平理论) – così viene definito il suo pensiero – venne integrata nella costituzione del PCC nel 1997 in qualità di ideologia guida e inserita in seguito anche all’interno della costituzione della RPC. I successivi segretari di partito l’hanno poi implementata in base al contesto temporale.
Jiang Zemin (江澤民) – in carica dal 1989 al 2002 – elaborò la “Teoria delle tre rappresentanze” (“三个代表”重要思想), la quale afferma che il potere del partito comunista cinese deriva dalla sua capacità di rappresentare la maggioranza del popolo cinese. Per questo motivo il PCC non può agire contro gli interessi concreti della popolazione ma deve garantirne il benessere, la pace e il progresso.
Hu Jintao (胡锦涛) – dal 2002 al 2012 -, invece, formulò la “Prospettiva scientifica dello sviluppo” (科学发展观), una teoria che, alla luce dei cambiamenti ideologici ed economici della Cina, pone le basi per la creazione di una società armoniosa, riducendone le diseguaglianze e aumentandone il benessere.
La Cina di Xi Jinping
L’attuale segretario del partito comunista cinese, oltre che presidente della RPC, è Xi Jinping (习近平), la cui leadership è incentrata maggiormente sul culto della personalità. Detiene, infatti, le maggiori cariche istituzionali del Paese e, tra l’altro, ha abolito il limite dei due mandati presidenziali.
Nel 2017 il “Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” (习近平新时代中国特色社会主义思想) è stato incorporato nella costituzione del PCC.
Ciò ha elevato lo status dell’attuale presidente a un livello maggiore rispetto a quello dei suoi immediati predecessori, avvicinandolo per importanza a Mao Zedong e Deng Xiaoping.
Il pensiero di Xi Jinping non si contrappone alle ideologie precedenti, ma ne rappresenta una continuazione. Come si intuisce dal nome, per Xi la Cina è entrata in una “nuova era”, per cui il “socialismo con caratteristiche cinesi” di Deng deve essere adattato al contesto attuale.
Questi erano, in breve, i cento anni del partito comunista cinese. Cosa riserverà il futuro lo potrà dire solo il tempo. Detto questo non mi resta che salutarvi: alla prossima!
Classe 1986. All’università ho scoperto la lingua cinese ed è stato amore a prima vista, tanto che da allora ho continuato a studiarla da autodidatta.
Nel blog, oltre a parlarvi della cultura cinese, cercherò di rendervi più familiare una delle lingue più incomprensibili per antonomasia.
Potete contattarmi scrivendo a: m.bruno@inchiostrovirtuale.it