Sembra essere imminente il ritiro del giocatore scozzese, uno dei grandi protagonisti del panorama tennistico degli ultimi anni
La notizia sportiva più importante di questo inizio di 2019 è senza dubbio quella del possibile ritiro di Andy Murray dai campi di tennis. In una recente (e straziante) conferenza stampa, il tennista scozzese ha dichiarato che il problema all’anca che lo affligge da tempo – costringendolo nei bassifondi della classifica – continua a tormentarlo e che non riesce più a convivere con un dolore che non sa se sia eliminabile. Per quanto annunciato, quello che abbiamo visto potrebbe essere il suo ultimo Australian Open, mentre il suo torneo di addio dovrebbe essere ovviamente Wimbledon, ma non è detto che il fisico gli conceda questa possibilità.
Tuttavia in questi giorni sembra che Murray stia ponderando diversamente il suo futuro. La madre Judy ha detto che ha la sensazione che il figlio non sia ancora pronto a lasciare il tennis giocato, mentre l’informazione più interessante viene dal celebre doppista Bob Bryan: l’americano, che si è operato all’anca e sta tentando di rientrare (a quarant’anni!) nel circuito di doppio con la sua nuova anca di metallo, ha detto che Andy gli ha chiesto numerosissime informazioni sul suo intervento chirurgico. Addirittura sembra che abbia già parlato con il chirurgo che ha operato Bob Bryan. In questo senso potrebbe indicare la scelta di operarsi anche il fatto di essersi cancellato da tutti i tornei di febbraio. Nessuna garanzia che l’operazione possa permettergli di tornare a giocare (anche perché un conto è giocare in doppio come Bryan, un conto in singolare), ma la voglia di provarci sembra esserci.
Se questo Australian Open dovesse comunque restare l’ultima partita di Andy Murray, possiamo dire che l’ultimo atto della sua carriera sia stata un’eroica sconfitta contro lo spagnolo Bautista-Agut, partita che stava per rimontare da una situazione di due set a zero per l’iberico, salvo soccombere visibilmente stremato nel quinto set. La voglia di lottare del britannico ha emozionato qualunque appassionato di tennis. Solitamente vedere Murray ciondolare sofferente per il campo indicava una fragilità più mentale che fisica, mentre stavolta è stato un valido parametro per capire contro quale dolore Andy abbia lottato per garantirsi di uscire dal circuito a testa alta, qualora quella dell’altro giorno si rivelasse realmente la sua ultima partita in carriera. Forse però proprio l’adrenalina e le sensazioni di questo incontro hanno spinto il giocatore ha valutare diversamente il proprio futuro.
A questo punto bisogna chiedersi cosa abbia rappresentato Andy Murray per il tennis. Per farlo bisogna capire come si sia evoluto negli anni e come contestualmente sia mutata strada facendo la percezione che di lui avevano addetti ai lavori e tifosi.
Breve storia di Andy Murray, dagli inizi ad oggi
Quando Murray inizia ad affacciarsi sul circuito maggiore si parlava di un giovane molto talentuoso ma un po’ troppo fumoso nelle giocate e nelle scelte. C’è una partita che spiega perfettamente come fosse diverso il giovane scozzese rispetto al futuro campione che di lì a breve sarebbe stato protagonista del tennis mondiale: la sfida con Nadal agli Australian Open 2007. Lo spagnolo era sulla scena già da diverso tempo, oltre ad essere già pluricampione del Roland Garros, Murray invece aveva iniziato a mettersi in mostra a certi livelli da poco. Fra i due sportivamente intercorreva ben più dell’anno anagrafico che dicono le rispettive carte d’identità. La partita fu vinta al quinto set da Nadal, ma lo scozzese mise un repertorio strepitoso: un gioco spettacolare, aggressivo e ricco di discese a rete e tocchi che in giro possono vantare un paio di giocatori. Eppure troppe volte si specchiava nei suoi colpi e faceva scelte avventate. Avanti due set ad uno, regalava il quarto set con un doppio fallo per poi sbriciolarsi psicologicamente e consegnare l’ultimo set a Nadal senza troppe resistenze. Per gli addetti ai lavori Murray si poteva riassumere come un ragazzo molto talentuoso ma che doveva diventare più solido per non rimanere un incompiuto.
La trasformazione tanto auspicata arrivò l’anno successivo: Andy lavorò molto fisicamente e ridusse drasticamente le scelte più creative ed offensive del suo repertorio. Nel 2008 arrivò in finale agli US Open, battendo Nadal ma perdendo in finale contro Federer. La sua affermazione in un torneo dello Slam sembrava imminente ma dovrà aspettare ben quattro anni (e qualche altra finale persa) per trionfare in uno Slam. In quest’arco di tempo Federer, Nadal, Djokovic e Murray monopolizzarono il circuito tanto da venir ribattezzati “Fab Four”. Ci si chiedeva allora chi sarebbe stato il prossimo numero uno fra Djokovic (che nel 2008 aveva già vinto uno Slam) e Murray.
La maggior parte degli esperti e dei tifosi scommetteva sullo scozzese, più talentuoso del serbo che stava mostrando alcune difficoltà tecniche (soprattutto con il servizio, disastroso). Eppure nel 2011 fu Djokovic ad arrivare in cima alla classifica mondiale grazie ad un’annata fra le migliori che un singolo tennista abbia mai compiuto. L’effetto diretto su Murray è quello di venir frettolosamente etichettato come un incompiuto, come uno che non riuscirà mai a trionfare nei tornei che contano. La stampa british inizia quasi a scaricarlo: non sarà certo uno scozzese il prossimo suddito della Regina a sollevare un trofeo dello Slam (cosa che non accadeva da circa una settantina d’anni, dall’inglese Fred Perry). La beffa finale era la critica tattica che gli veniva universalmente rivolta: troppo difensivo e troppo poco coraggioso per poter vincere uno Slam e diventare numero uno. Praticamente gli si imputava di non avere un atteggiamento più simile a quello che gli veniva contestato in precedenza!
Senza addentrarci in una ricostruzione meticolosa della carriera di Murray anno per anno (cosa che si può tranquillamente fare su Wikipedia), possiamo dire che dopo aver vinto tre Slam (due Wimbledon ed uno US Open), due ori olimpici e aver raggiunto il numero uno in classifica, Andy abbia smentito i suoi critici. Lo scozzese che alzava i piatti del secondo classificato è infine diventato il britannico che alza i trofei più importanti del circuito.
Riflessioni finali
Oggi potremmo dire, in chiave evoluzionistica, che Murray abbia rappresentato (e rappresenti tuttora) l’anello mancante fra i tre fuoriclasse che hanno segnato gli ultimi quindici anni di tennis (per chi proprio se lo stesse chiedendo: Federer, Nadal e Djokovic) ed il resto del circuito. L’unico in grado di battere con regolarità i tre migliori al mondo senza dover necessariamente indovinare la partita della vita od essere in stato di grazia ma anche quello più abbordabile per gli altri giocatori (soprattutto sulla terra battuta, mai digerita del tutto). Più costante e con un livello medio più alto di Wawrinka, che pure ha vinto tre Slam come lui e che probabilmente ha avuto dei picchi di rendimento ancora più alti dello scozzese. Migliore di Del Potro, su cui però hanno pesato (e purtroppo continuano a pesare) una serie infinita di infortuni che ne hanno tremendamente limitato la carriera. Meno “Fab” dei primi tre, ma comunque “Fab”.
Come sempre impossibile dire se avrebbe potuto vincere qualcosa in più, perché se il suo talento è sempre stato evidente, anche i suoi limiti lo sono stati: al di là di una relativa fragilità mentale, il dritto non è mai stato all’altezza degli altri colpi e spesso neanche la seconda di servizio. Difficile dire se questi fondamentali potessero essere ulteriormente migliorati oppure se lo scozzese abbia raggiunto il massimo delle proprie possibilità. Sarebbe potuto essere un giocatore più offensivo visti i suoi mezzi, trovare un compromesso meno conservativo rispetto a quello adottato dal 2008 in poi (solo raramente mitigato), ma ciò non avrebbe comunque dato garanzia di maggiori vittorie. Aspettando un verdetto definitivo sulla fine della carriera di Murray, magari qualcuno si divertirà a pensarci su senza trovare risposta al proprio interrogativo.
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