Pensate che i graffiti siano “arte moderna”? Tsè, illusi.
In Val Camonica, provincia di Brescia, nei pressi di Capo di Ponte, località Naquane, c’è un intero parco di oltre 14 ettari, che dimostra l’esatto contrario: graffitare i muri (in questo caso, le rocce) è la forma d’arte più antica del mondo.
La zona è poco lontano dal lago d’Iseo, in una valle tra i 400 e i 600 metri sul livello del mare. Direte: ma che mi frega di questo? Lo scrivo solo per il vostro bene: per visitare questo parco servono scarpe comode e un abbigliamento adeguato, perché il giro completo di tutti e cinque i percorsi richiede almeno 4 ore di camminata in ambiente boschivo. In altre parole, non si passeggia come davanti alle vetrine di Via Condotti.
Se dopo questa precisazione avete ancora voglia di seguirmi, vi porterò a conoscere ben 104 rocce incise, girovagando nel Parco nazionale delle incisioni rupestri di Naquane (e no, non ho sbagliato, si scrive proprio così, senza la C.). Ok, non proprio tutte e 104, facciamo una decina, altrimenti poi mi accusate di spoilerare.
Prima di tutto due veloci note “scolastiche”, giusto per far vedere che siamo preparati ed abbiamo fatto i compiti.
Il Parco di Naquane
Il Parco di Naquane è nato nel 1955, la prima scoperta di questi capolavori artistici risale però al 1909, ad opera di Walther Laeng (per gli amici, Gualtiero), che segnalò due massi istoriati nella zona di Cemmo. Dopo la prima guerra mondiale arrivarono i primi veri “curiosi” e fino al 1937 si sono susseguiti nella zona diversi archeologi ed antropologi. Ai tedeschi Franz Altheim ed Erika Trautmann va il merito di aver esportato la notizia della scoperta oltre i confini italiani, unita al de-merito di aver tentato un’interpretazione dei segni in chiave ariana (in parole spicce: “i primi abitanti di questa zona erano tutti alti, belli e biondi”, poi s’è scoperto che i Camunni erano piccoli e neri… no ok, sto scherzando!). Dopo una sosta dovuta alla seconda guerra mondiale, gli studi ripresero fino a giungere alla fondazione del parco, nel 1955, appunto. Nel 1979, a distanza di 70 anni dal primo ritrovamento, il sito è stato incluso tra i Patrimoni dell’Umanità UNESCO, primo tra i tanti in Italia.
A dirla tutta, l’arte rupestre in Val Camonica è segnalata su circa 2000 rocce in oltre 180 località comprese in 24 comuni, con maggiori concentrazioni in alcune zone. I parchi, in totale, sono “solo” 8, di cui 3 a Capo di Ponte. Oltre al succitato, troviamo infatti i Massi di Cemmo e il Parco Archeologico di Seradina-Bedolina.
Ho scelto di portarvi a Naquane perché è il primo fondato, il più conosciuto ed anche per ragioni sentimentali. Dovete sapere che ci sono alcune cose che ogni bresciano deve assolutamente fare nel corso della sua vita e sono categoriche, come la Cresima per un cattolico o la visita a La Mecca per un musulmano. Ecco, in passato, la gita scolastica alle Incisioni Rupestri di Capo di Ponte era un obbligo morale, che puntualmente capitava in terza o quarta elementare. E come giustizia impone, conoscerete queste opere d’arte come le ho viste io, con gli occhi di una bambina di 9-10 anni.
Potrà sembrare dissacrante, ma ormai non siamo più a scuola e possiamo permettercelo.
Anzitutto dovete sapere che l’opera omnia non è stata creata in sei giorni, con riposo al settimo. Parliamo infatti di un arco di tempo di 13.000 (13mila) anni, tra il Neolitico (V-IV millennio a.C.) e l’età del Ferro (I millennio a.C.), fino ad arrivare al tempo dei Romani. La “tela” su cui i Camunni, popolazione autoctona, si improvvisarono artisti è composta da rocce arenarie dal colore grigio-violaceo, opportunamente levigate dai ghiacciai. I “pennelli”, o le “bombolette spray” se preferite il termine più attuale, più utilizzati erano dei percussori litici, coi quali picchiettavano la superficie; di rado incidevano direttamente con uno strumento a punta. Per capirci, il percussore litico è l’antenato di martello e scalpello moderni. Questo significa che le incisioni erano studiate e non frutto di un raptus vandalo del momento. Erano primitivi sì, ma con stile.
I soggetti ritratti sono diversi: animali, uomini armati, telai verticali a pesi, palette, edifici, coppelle, un labirinto, sacerdoti, cavalieri, figure simboliche ed iscrizioni camune, la cui interpretazione è varia poiché, col passare del tempo, nuove scene venivano incise sovrapponendole a quelle più vecchie, anticipando di qualche millennio la tecnica di Leonardo da Vinci.
Tra l’altro, i colpi di picchiettatura sulla roccia, o “pexils”, si possono paragonare ai pixel delle moderne immagini digitali… così, pour parler.
Immaginate distese e distese di rocce, inframmezzate da alberi e cespugli a fare da cornice e se vi sembra ancora poco, ricordate che quando eravate alti un metro e poco più, anche uno stagno poteva apparire immenso. Ad ogni modo, la prima cosa che si nota è proprio l’estensione delle superfici incise. Entrando nel parco, già la sola roccia n. 1 toglie il fiato, con circa un migliaio di figure. Non a caso è chiamata “La Grande Roccia”.
Ed ecco, a seguire, alcune delle incisioni presenti nel Parco che più mi hanno colpito già ai tempi della prima visita e di cui vi darò una mia personalissima interpretazione.
1. Gli “Oranti”
Sono presenti su quasi tutte le rocce. Rappresentano l’uomo comune, probabilmente raffigurato durante una delle tante celebrazioni in atteggiamento di adorazione, con le braccia al cielo. Sono anche detti “Pitoti” perché, nella credenza del luogo, si riteneva che i graffiti fossero opera di pastori o caprai, che a tempo perso si dilettavano nel fare queste incisioni, per scherno. “Pitoto” infatti, nel dialetto locale, significa scarabocchio, scherzo e, per estensione, buffone, giullare.
L’assonanza con la parola “pittato”, pitturato, è un puro caso. O forse no, se pensiamo che spesso i grandi pittori furono ampiamente snobbati in vita e molti di loro son morti in povertà.
2- Rosa camuna
L’interpretazione ufficiale sostiene che il disegno in alto, simile ad una farfalla, sia d’ispirazione religiosa o, comunque, simbolica, mentre l’ominide raffigurato sotto, fornito di coltello, scudo e casco, si pensa possa richiamare un alieno, o un personaggio d’alto rango, o ancora uno straniero giunto in visita. Chiunque fosse sembra dover sottostare al “giudizio” imposto dal simbolo stesso.
Lo ammetto spudoratamente: io l’ho interpretato come un cuoco, con tanto di vassoio, posate e cappello d’ordinanza, nell’atto di servire o preparare il pasto ai commensali, la cui portata principale è, appunto, la rosa camuna, formaggio tipico della zona.
Se il simbolo vi sembra familiare, beh… è stato utilizzato per il logo della Regione Lombardia.
3. Il Labirinto
Al pari del precedente, anche questo simbolo rappresenta un vero e proprio mistero: compare infatti in luoghi e tempi diversissimi tra di loro. Alcuni studiosi ritengono che si tratti di un “percorso spirituale”, confinandolo così al campo religioso-mistico, altri vedono la rappresentazione di un cervello umano, altri ancora l’associano al repertorio rituale del mondo agricolo, connesso con i periodi della semina e del raccolto e, perciò, anche con i cicli solari, ma nessuno sa dare una spiegazione accettabile per la sua diffusione nel mondo e in tempi e luoghi così distanti tra loro. Lo stesso simbolo è stato rinvenuto in Inghilterra, Egitto, Siria, Finlandia, Stati Uniti, India, Spagna, Grecia, Perù… solo per citarne alcuni. In Italia, oltre che a Capo di Ponte, lo si trova in Sardegna e su ritrovamenti etruschi. Tra le possibili interpretazioni quella che prediligo segue la descrizione della città di Atlantide fornita da Platone nel Crizia, e porta a pensare che rappresenti nientemeno che la mappa della suddetta città.
E, tanto per restare in tema mitologico, vi ricordo il labirinto di Creta, dove Teseo uccise il Minotauro con l’aiuto di Arianna, con tutto il significato che ne consegue.
4. Carro a quattro a ruote
È indubbiamente un veicolo su ruote trainato da cavalli, decisamente all’avanguardia per l’epoca. Le due ruote anteriori erano più piccole e più distanziate per permettere una maggiore mobilità. Un progetto talmente moderno che ancora oggi viene utilizzato un mezzo simile da anziani contadini del posto. Essendo un tema ricorrente, molti studiosi lo interpretano anche in chiave religiosa, come il carro per il trasporto dei defunti verso l’aldilà. Personalmente credo fosse più uno strumento di lavoro, che altro. Non per nulla, ma noi bresciani abbiamo fama di essere dei gran lavoratori.
5. Edificio con scala
Osservi l’incisione e pensi che quella non è la solita palafitta, ma una signora reggia. Riflettendoci bene questi antichi erano all’avanguardia perfino nella prevenzione: le case erano dotate di vie di fuga e scale esterne antincendio.
La mia interpretazione, data la forma particolare del tetto, tondeggiante a differenza degli altri, è che potrebbe trattarsi di un osservatorio celeste e le cosiddette “scale” siano un banale, ma geniale, sistema di conta.
6. Gruppo di case
Si crede che siano, verosimilmente, granai, o case di personalità importanti: capo villaggio, sacerdote o grandi guerrieri. Anche qui le interpretazioni sono varie, certo è che i loro architetti non avevano nulla da invidiare ai nostri moderni.
Accanto ed intorno (non completamente visibili nella foto) vi sono animali di vario genere: cani, cavalli, capre ed anche uccelli acquatici. Da notare il cavaliere, sulla sinistra. Il tutto fa pensare alla rappresentazione di un intero villaggio.
7. Sacerdote che corre
Ok, lo ammetto, la definizione non è delle più felici, ma è quella della guida ufficiale. Si tratta, secondo me, di una delle raffigurazioni più strambe presenti nel parco.
Qui le interpretazioni (mie, dissacranti) spaziano da “Correresti anche tu, se t’avessero acconciato i capelli in quel modo” a “Per la miseria, usavano già il gel!”.
Che, tra le altre cose, io l’abbia sempre associato alla figura di Medusa diventa solo un dettaglio, così come il sottolineare che anche i nativi americani usavano dei copricapo ornati di penne e piumaggi vari.
8. Scrittura
Gran parte delle testimonianze di questo alfabeto si trovano proprio su queste rocce. Viene considerata una variante dell’alfabeto etrusco settentrionale, correlata con il retico, lingua estinta, parlata anticamente dai Reti, un popolo alpino che viveva tra le odierne Italia nordorientale, Austria, Svizzera e Germania meridionale.
Poi succede che tu la guardi e pensi che gli antichi, nonostante tutto, avevano una calligrafia più leggibile del tuo compagno di banco.
9. Duellanti
L’ultima scena che vi propongo rappresenta dei guerrieri, o duellanti. Nel gruppo a sinistra si notano chiaramente le spade e gli scudi. Uno dei due indossa l’elmetto e, quando si dice che sono i dettagli a fare la differenza, entrambi hanno un fodero legato al fianco.
I due a destra non impugnano armi e paiono più impegnati in una sana scazzottata.
Si tratta forse, più che di una guerra, della versione locale delle Olimpiadi? Chissà.
10. Cernunnos
Non si tratta di una vera e propria scena, ma di un tema presente ovunque: il cervo. Pare chiaro che la carne di cervo fosse una delle pietanze di base dei Camuni, dato che la zona è l’ambiente naturale per questa specie. Gli studiosi però leggono anche una valenza religiosa nelle incisioni che ritraggono questi soggetti. Il “Dio Cornuto” rappresenta, nella mitologia celtica, lo spirito divinizzato del maschio, il dio della fecondità, degli animali e della natura selvaggia.
Concordo con la loro interpretazione, ma intendiamoci: non si tratta di divinità intesa alla “cristiana maniera”, bensì di un modo per onorare i doni della natura: cibo, anzitutto, poi salute e fecondità, quindi la garanzia della prosecuzione della specie.
Ad oggi non si sa chi, e con quale intento, abbia avuto il compito di effettuare queste incisioni. Certo, questi capolavori ci danno una visione d’insieme sull’evoluzione delle conoscenze della popolazione autoctona, tramite lo studio degli oggetti rappresentati. Sappiamo delle loro attività, abitazioni, attrezzi, credenze. Ciò che non si spiega è se, e cosa, ci sia dietro le varie scene. Si tratta di semplici rappresentazioni di vita quotidiana per dovere di cronaca oppure di espressioni complesse di concetti religiosi, simbolici o filosofici? Di una cosa sono sicura: qualunque fosse il messaggio che volevano trasmettere, i “pitoti” si sono assicurati di renderlo quasi eterno, affidandolo alla roccia. Lasciamo dunque che sia la nostra immaginazione ad interpretare al meglio questi segni, col rispetto che meritano anche per il solo fatto di essere arrivati a noi dopo un viaggio nel tempo durato millenni.
Concludendo (evviva!) la nostra gita, non mi resta che consigliarvi caldamente di visitare questa zona. Primavera ed autunno sono i periodi migliori per godere appieno anche della natura circostante, e non solo dell’arte e cultura antiche che si trovano qui.
Al prossimo viaggio!
Annalisa A.
Postilla: raggiungere Capo di Ponte.
Ci sono diversi modi. Il più classico è, ovviamente, l’automobile. Non ha orari prestabiliti, potete fare tutte le soste che volete (e, fidatevi, ci sono dei panorami che vale la pena fotografare, durante il tragitto, altro che selfie!) e potete rientrare stile partenza intelligente, ad un orario che non coincida con l’esodo di massa. Tempo un’ora e 15 minuti, più o meno, soste escluse.
L’altro mezzo è l’autobus. Il fatto è che non avete più l’età per passare da ragazzini in gita scolastica e, oltretutto, ci si impiega quasi 2 ore.
Se invece volete fare una full immersion in piena regola consiglio caldamente il treno. Partenza dalla stazione di Brescia e linea
diretta che in circa un’ora e mezza vi deposita poco lontano dal parco. La linea ferroviaria è storica, oltre che panoramica, e si snoda lungo un tragitto a dir poco suggestivo. Un tempo le carrozze erano davvero uniche (foto 1), poi dismesse sul finire degli anni 80 per passare a quelle più moderne della Trenord, molte delle quali graffitate, per restare ironicamente in tema col viaggio (foto 2).
Vi potrebbe pure capitare di restare bloccati per un tentato suicidio finito male, poiché l’aspirante alla tumulazione ha deciso di morire posizionandosi in parallelo ai binari, e quindi finendo semplicemente sotto il treno, vivo, anziché di traverso, come i migliori film del far west insegnano.
Ma questa è un’avventura che vi racconterò in un’altra occasione.
Giunta qui sicuramente da un mondo parallelo e da un universo temporale alternativo, in questa vita sono una grammar nazi con la sindrome della maestrina, probabilmente nella precedente ero una signorina Rottermeier. Lettrice compulsiva, mi piace mangiare bene, sono appassionata di manga, anime e serie TV e colleziono Lego.
In rete mi identifico col nick Lunedì, perché so essere pesante come il lunedì mattina, ma anche ottimista come il “primo giorno di luce”.
In Inchiostro Virtuale vi porto a spasso, scrivendo, nel mio modo un po’ irriverente, di viaggi, reali o virtuali.
Sono inoltre co-fondatrice, insieme a Jessica e Virginia, nonché responsabile della parte tecnica e grafica del blog.
Mi potete contattare direttamente scrivendo: a.ardesi@inchiostrovirtuale.it