L’acqua, elemento cardine della vita dell’uomo, scopre un legame altrettanto cruciale con la fotografia
Cos’è che ci rende unici e fragili
con sette vite e sette miliardi di desideri
una pelle molto sottile
sempre assaliti dai pensieri
su questo pianeta chiamato Terra
anche se come noi è quasi soltanto acqua
come noi tra un amore e una guerra
assediati da quello che manca…
(Le Luci Della Centrale Elettrica, Coprifuoco)
Più o meno un mese fa, mi trovavo a Boca do Inferno (Cascais) a mezz’ora di auto da Lisbona, ed ero convinto che quella fosse la mia prima volta davanti all’oceano.
In realtà mentre stavo lì a spingere i pensieri in fondo alla curva dell’orizzonte (con buona pace dei terrapiattisti), con tanto sole in faccia e altrettanto vento, mi sono ricordato di averlo già visto in passato, di averci fatto pure il bagno dentro, diciassette anni fa, quando ero in Irlanda con un gruppo di amici.
I miei sentimenti per l’oceano, da sempre, oscillano incerti, fra il fascino della incalcolabile possibilità e la vertigine dell’abisso dato dalla sua mole.
Una fotografia meglio di altre, nel mio immaginario, rende questa idea di smarrimento, sgomento, e al contempo totale e completa liberazione dei pensieri, della mente, rilascio da ogni sorta di costrizione. Lo scatto è di Keegan Gibbs, fotografo di Los Angeles appassionato di surf. Il frame è occupato, quasi completamente, dal mare aperto, cupo, di un verde prossimo al cobalto, di un blu notturno elettrico, che si mescolano e si separano in continui schianti di onde. Una striscia minima di cielo, carico di nuvole rapide, ci dà la misura della vastità pazzesca del nostro minuscolo pianeta e, di conseguenza, del nostro patetico essere niente.
In primo piano, sulla sinistra, nuota una donna completamente nuda (i segni dell’abbronzatura ci informano sul sesso): lei così libera e così persa, porta con sé il senso intimo di quel capogiro. Troppa acqua in ogni direzione, per chilometri e chilometri (due terre piatte che si intravedono distanti non sanno attenuare la sensazione di “mare aperto”), troppo cielo sopra la fronte e, sotto di lei, quello che non sapremo mai, l’ignoto spazio profondo.
Per me sta qua l’enigma degli oceani, e più in generale dell’acqua: il fatto che sappia raccontare perfettamente la centralità dell’essere umano (nella sua infinita ignoranza) e la sua contemporanea posizione siderale e periferica, rispetto a ogni cosa: all’universo, alla grandezza sublime e spaventosa della natura, rispetto agli altri esseri viventi, persino rispetto agli stessi uomini e alla propria immagine riflessa nello specchio.
«L’acqua è vita!» recitava un orrendo manifesto, nella camera di un vecchio amico d’infanzia.
Sua madre, preoccupata nel vederlo veleggiare verso le insidiose paludi della pubertà, decise di regalargli una piccola collezione di poster sul pensiero positivo, nell’inutile tentativo di controbilanciare le appetitose tentazioni delle gigantografie allegate a settimanali soft-erotici, che al tempo acquistavamo, considerandoli un ottimo compromesso fra la totale resa alla pornografia e la perdita della ragione.
Di tutti quegli incoraggiamenti ad una visione più aperta e solare verso il presente (uno degli slogan mi pare fosse «Pensa Positivo = Energia»), è rimasta solo questa ovvietà sull’acqua, talmente banale da riproporsi ogni volta nei miei ricordi, come un pasto indigesto. L’acqua è vita, chi potrebbe contestarlo?
L’acqua è buio e orribile smarrimento, è sesso languido e inconscio, è sana fresca vitalità, oblio, suicidio e incubo, rinascita, sporcizia: indubbiamente qualcosa che ricorre nel nostro immaginario, un legame atavico che rende occhi e cervello, fertili di domande e suggestioni al riguardo. Anche la fotografia sembra avere molto a che spartire con essa.
Il fotografo canadese Jeff Wall, grande esploratore della staged photography e delle caratteristiche tecnico-filosofiche insite nel medium, ricorda che «l’acqua svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo di una fotografia», quindi è effettivamente vita, «ma la sua quantità e il tempo riservatole devono essere controllati con la massima attenzione, se non si vuole distruggere l’immagine»[1]. Allora l’acqua diventa anche morte e privazione, e il suo rapporto di dipendenza con la fotografia è circolare come lo Yin e lo Yang, con implicazioni che non toccano solo la sfera meccanica del procedimento, ma anche quella dei significati e dei contenuti, specialmente nell’epoca del digitale. Wall è uno dei primi ad aver analizzato questo oscuro, ma eclatante rapporto, con un testo breve, incisivo e pregno di riflessioni complesse, dal titolo Fotografie e intelligenza liquida, in cui teorizza i due poli opposti di questa interazione: da un lato l’intelligenza liquida della natura, scivolosa, perpetua, armoniosa, da identificarsi con lo scorrere dei fluidi e dall’altro l’intelligenza secca, dei meccanismi fotografici, come ad esempio il gesto di aprire e chiudere l’otturatore, determinando l’istantaneità dell’atto fotografico.
Esiste un rapporto logico, un rapporto di necessità, fra il movimento di un liquido e il mezzo usato per riprodurlo visivamente.[1]
E quel rapporto di necessità, che sembrava permeare anche le criptiche didascalie del Grande Vetro, di Duchamp (che per alcuni non è altro che il simulacro di una fotografia) è qualcosa che vale la pena di indagare nelle sue possibili declinazioni.
Una delle immagini emblematiche di Wall, per quanto riguarda questo genere di riflessione, è la light box Milk (1984), sebbene già dal titolo sia chiaro che non stiamo parlando di acqua, ma di un altro liquido altrettanto fondamentale per la nostra esistenza. Quello che conta in questa immagine, è la contrapposizione fra la staticità, il rigore e la freddezza delle geometrie descritte dai mattoni del muro, l’ordinata scansione dei piani e il gesto ambiguo (perché nell’immagine appare statico) del protagonista, che agitando il cartone del latte, inocula il caos e la totale imprevedibilità fuori da qualsiasi controllo, in uno scenario che cercava inutilmente di contenere gli stati emotivi.
Questa incontenibile tendenza al disordine, vale per qualsiasi sostanza liquida, massima espressione del mondo naturale, contro l’universo tecnologico. E vale in primis per l’acqua, un elemento che la fotografia ha spesso cercato inutilmente di domare, rischiando invece di restarne sopraffatta: molti fotografi, che hanno posto l’elemento come cardine propulsivo di alcune creazioni, hanno tenuto presente questa considerazione come punto di partenza del proprio lavoro, scegliendo deliberatamente di lasciarsi vincere e “invadere”.
Michael Kenna, ad esempio, ha un rapporto quasi spirituale con questo elemento: nei suoi scatti, esso trasforma magistrali paesaggi, in luoghi dell’anima, permeati da una solitudine quasi metafisica. Penso soprattutto al Giappone, che Kenna ha descritto (dal 2001 al 2012) come un aldilà profondamente malinconico e ideale, fatto di distanze incalcolabili e pace, silenzi surreali e un’acqua che non si ferma mai di fronte alla posa lunga dell’otturatore, diventando a tratti fumo, a tratti un pavimento di nebbia, dove seppellire i nostri inutili ricordi.
Alcuni artisti hanno oltrepassato quella parete mobile di attrazione e paura, cercando nell’acqua una risposta alle proprie insicurezze: la talentuosa fotografa indiana Manjari Sharma ha toccato l’argomento in più occasioni, costruendoci attorno interi racconti visivi: i suoi scatti sembrano partire da una visione più banale e superficiale come il reportage sui surfisti (Surfers), per passare a uno sguardo più ardito e consapevole in Water, dove l’uomo non è che un minuscolo Davide osservato dall’alto, di fronte al gigante delle sue paure, il mare, che da un lato minaccia e dall’altro seduce. Anche Anastasia, immersa in una notte piena di colori, dialoga continuamente con l’acqua, che sia piovana, carica di cloro o quella ormai stantia e tiepida, di una vasca da cui non si vuole uscire.
Il punto più alto, Manjari Sharma, lo tocca con lo splendido e delicato voyeurismo di The Shower Series, ventaglio attraente di intimità, in cui ciascuno di noi si può identificare. L’elemento acqua, in questo lavoro, diventa la culla di riflessioni dolorose e il gesto di “pulirsi”, lavare via lo sporco, diventa soprattutto metaforico e indubbiamente catartico.
Scendiamo di qualche atmosfera ancora, in questo breve viaggio nelle profondità fotografiche e ci troviamo nel punto di interazione, consapevole, scelto e sperimentale, fra acqua e corpo: Arno Rafael Minkkinen (citato nel mio precedente articolo sugli sciamani della fotografia) nel lavoro Water and Sky, distorce i corpi, li nasconde e poi li annulla, li diluisce nelle trasparenze acquatiche come se stesse cercando la chiave di un segreto che determini la metamorfosi fra questi due soggetti così intimamente connessi, eppure per certi versi alieni, l’uno dall’altro. Sembra che l’uomo, attraverso l’acqua, cerchi di spersonalizzarsi e mutare in qualcosa di diverso da se stesso, di diventare natura e purezza, un’entità da confondere col paesaggio, che non risulti costantemente un’anomalia.
Diversamente, i bambini di Debora Schwedhelm, in From The Sea, sono entità riconoscibili, che trovano nell’acqua un mezzo per acquistare una consapevolezza adulta, una sicurezza meditabonda e fiera: non sorridono mai questi piccoli uomini e i loro giochi sembrano un serio e rigoroso allenamento per acquistare sicurezza, come hanno già fatto quando, poco tempo prima, muovevano i primi passi da una poltrona all’altra del salotto. Un presentimento di quanto il futuro si stia avvicinando a lunghe falcate.
E si può scegliere se stare a galla o affondare, fendere le onde, attaccandole dal basso, con la lama della nostra perseveranza, come fa il nuotatore di André Kertész; o lasciare che la luce e il buio facciano l’amore per ore, intorno alla nuvola di un vestito bianco, che si contrae e poi si abbandona, come una medusa nel suo seducente vagare voluttuoso. O ancora, guardare inebetiti, la testa della Eleanor di Harry Callahan, sospesa in quel flusso di coscienza che sembra traboccato come magma, da un’eruzione incontenibile della mente.
Infine, un ultimo passo nell’oceano più cupo e indecifrabile, che chiude un po’ il cerchio con le considerazioni di Jeff Wall e con i mantra del pensiero positivo, spalmati sui poster della mia gioventù: l’acqua come zona liminare, di passaggio, fra vita e morte.
Prendiamo allora in considerazione la stupefacente serie Awakened (2007), di David LaChapelle, una sospensione irreale che è specchio della risposta a una domanda decisiva, comune a tutti gli esseri viventi, congelata nell’attimo in cui diventa intellegibile: «cosa ci aspetta un istante dopo il nostro ultimo respiro?». Ma se la luce soprannaturale di questa presunta rivelazione, che il fotografo americano mette in scena, è vivida e brillante, le immobilità di Desiree Dolron in Gaze (1996-1998) sembrano, al contrario, vasche di formalina torbide, dove la luce arriva da troppo lontano, debole, malata, diafana e non c’è senso di liberazione, ma solo un abbandono irrimediabile e definitivo, che vibra nel buio come la parola FINE.
[1] J. Wall, Fotografia e intelligenza liquida, in Un’altra obiettività, cat della mostra a cura di J.-f. Chevrier – J. Lingwood, Milano, Idea Book, 1989, pp. 231-232.
Classe 1980. Foto-ricordi per notturni di penna, amici di vino e biscotti salati. Amo la musica da quando ero bambino, amo l’arte da quando sono diventato adulto. Nel mezzo ho sempre scritto.