La sclerosi multipla vista da chi ne è affetto: l’esperienza di mia sorella e le fotografie di Egle Picozzi
Questo sarà un articolo un po’ diverso da quelli che ho scritto fino a ora, per molteplici ragioni.
Sebbene Grandangolo sia una rubrica dalle vedute ampie, pur partendo sempre da stimoli di carattere fotografico, questa volta entrano in campo fattori più complessi (strettamente intimi e personali) che mi spingono a costruire il testo come un innesto, dove convivono le mie considerazioni sul medium e una pseudo-intervista a mia sorella.
La giustificazione ufficiale è la coincidenza di questa uscita, con la Settimana nazionale della sclerosi multipla (dal 27 maggio al 4 giugno), quella non ufficiale è il desiderio di comprendere con gli strumenti peculiari e atipici che ho a disposizione (la fotografia e i suoi molti linguaggi), una questione che mi tocca molto da vicino. Questo scritto non vuole essere un testo di carattere divulgativo o tanto meno un compendio scientifico, non ne avrei la capacità e non è la mia area di competenza. Vorrei solo, attraverso l’esperienza personale di qualcuno che conosco bene, messa in dialogo con la serie della fotografa Egle Picozzi sui sintomi della malattia e la loro rappresentazione simbolica, provare a raccontare cosa significa avere la sclerosi multipla.
La risultante sarà necessariamente un ibrido, fra queste due voci che corrono in parallelo: quella di Elisa (mia sorella appunto), che racconta i primi giorni, le reazioni, i segnali che il corpo cercava di darle e poi l’accettazione della malattia come un soggetto non da combattere, ma da imparare a conoscere; e la mia, che cerca di illustrare e capire le immagini costruite da Egle per esprimere il suo fantasma interiore.
Vediamo cosa ne è uscito fuori.
C’è uno scatto, firmato dalla giovanissima fotografa australiana Prue Stent, dove, seguendo il suo inconfondibile immaginario fatto di presenze rosa gommose, dispone al centro di un paesaggio spoglio (presumibilmente una radura in prossimità di una scogliera) che si affaccia sul mare, una sedia anonima, su cui con gli occhi chiusi resta accoccolata, avvolta in un involucro elastico, una ragazza. Sembra serena, ma l’impedimento che la ingloba è evidente, a tratti disturbante.
L’isolamento e la costrizione sono i cardini che tengono in piedi l’immagine, due timori comprensibili che ho ritrovato, in parte dichiarati e in parte sottintesi, durante la conversazione che ho avuto con mia sorella, in merito alla malattia con cui convive da un po’ di tempo. Al di là delle reali intenzioni della fotografa di Melbourne in sede di progettazione dello scatto, il cortocircuito su cui sono inciampato sta dentro a quell’atteggiamento sereno, quella calma apparente, nonostante l’impossibilità di svolgere le più comuni attività, come se stesse aspettando, con pazienza, di essere liberata. Certo senza volerlo, la Stent ha messo in luce una delle caratteristiche principali della sclerosi multipla, dando forma a qualcosa che nessuno di noi può vedere o toccare, semplicemente perché accade all’interno di chi ne è affetto.
“Sono sei anni ormai, lo so dal 2011.
Anche se i sintomi risalgono a dicembre dell’anno precedente.
È cominciato tutto con un periodo di frequenti capogiri, sebbene non li abbiano mai associati alla malattia. La sensazione era quella di trovarmi su una barca mentre sta dondolando.
Poi una domenica, dopo aver passato il pomeriggio a giocare con il cane di un amico, si è presentato per la prima volta il formicolio alla mano. Credevo dipendesse dal tempo passato a lottare con lui per strappargli di bocca la pallina di gomma preferita, ma la sensazione è rimasta, peggiorando progressivamente: ho cominciato a incontrare difficoltà nello scrivere, per lavarmi i denti ho dovuto usare l’altra mano, lo stesso per asciugarmi i capelli. E la cosa è andata avanti così fino al primo ciclo di cortisone, cinque mesi dopo.
C’è stato un giorno che vale un po’ come “punto di non ritorno”, in cui ho capito di aver bisogno del consulto di un medico.
Ero a Pisa all’università, dovevo riportare a casa il relitto di bicicletta che tenevo in città, per spostarmi dalla facoltà alla stazione. Mentre la spingevo fino al treno per Lucca, perché non avevo più intenzione di utilizzarla, ho sentito mano mano che camminavo, una difficoltà crescente a livello di deambulazione e una fatica innaturale. Avevo la sensazione inquietante di trascinare questa gamba, come se progressivamente non mi appartenesse più. Speravo che dipendesse dall’inagibilità di quel rottame, ma in realtà sapevo di avere qualcosa: andai dal medico di famiglia che mi prescrisse subito una risonanza magnetica.
Inizialmente si parlò di Adem (più come speranza, che come ipotesi reale), un’encefalite acuta che colpisce più comunemente i bambini, simile per certi versi alla sclerosi, ma reversibile.
O almeno credo, non la conosco nello specifico.
Era uscita questa ipotesi remota perché avevano trovato, con la risonanza, tutte lesioni attive, niente di vecchio. Per lesioni si intende una sorta cicatrici in atto, o corso di formazione, nella sostanza bianca che protegge le fibre nervose, detta mielina. La RMN con liquido di contrasto può mettere in evidenza sia formazioni cicatriziali ormai passate, sia quelle che si stanno generando al momento del controllo. Le mie erano attive, tutte nuove, per questo speravamo in qualcosa che non fosse cronico”.
Lo scorso anno, girando in rete, mi sono imbattuto per caso nel lavoro di un’artista e fotografa sarda della mia stessa età, Egle Picozzi. La serie da lei costruita, nello stile della staged photography, (seppur con pochi essenziali elementi), tratta il tema, visivamente controverso, della sclerosi multipla, illustrata con lo sguardo inedito di chi ne è affetto. SM – Sclerosi Multipla, è composto da un portfolio di fotografie con inquadratura fissa, ambientate al DriMcafè Caffetteria Letteraria di Oristano, sopra un divano con motivi floreali, incorniciato da due scaffali pieni di libri e due lampade identiche, che trasmettono tranquillità e un vago senso di casa, di appartenenza, con piccoli ritratti appesi al muro e una pila di cuscini a rendere gradevole la permanenza.
“Scopro quindi di avere la sclerosi multipla.
È qualcosa che non conosci, non ne comprendi i confini, non ti sono chiare le proporzioni del problema e dici a te stessa: «Oh cazzo!».
La notizia, inevitabilmente, ti devasta.
Mi hanno ricoverata e il primo ciclo di cortisone ha subito bloccato tutto. Sono spariti i sintomi (la gamba quasi subito ha ritrovato la giusta mobilità, la mano, maggiormente sollecitata, ha avuto bisogno di qualche giorno per tornare come prima), tranne il segno di Lhermitte, che ha impiegato nove mesi ad andarsene. Questo sintomo torna di frequente, è un po’ il biglietto da visita della mia coinquilina. Ho cominciato a risentirlo qualche settimana fa, ormai è un amico fidato: si esprime con ciascuno in modo diverso, ma è comunque una sorta di piccola scossa elettrica che si propaga dal collo fino alle gambe, quando pieghi la testa. Può presentarsi in questa forma o come vibrazione che senti solo agli arti inferiori, o ancora, come un formicolio improvviso che interessa i piedi quando abbassi il capo. La sensazione non è dolorosa, solo strana: arrivi a un punto in cui eviti di fare determinati movimenti per non sentirlo.
Ci sono tre tipi di sclerosi: recidivante remittente, primaria progressiva e secondaria progressiva.
La recidivante remittente è quella che ho io ed è la più frequente, almeno nella fase iniziale: quando si presentano i segni, con un ciclo di cortisone, per i più fortunati, il problema fa marcia indietro. La lesione comunque resta, anche se il sintomo non lo senti più. Non bisogna dimenticare che è un processo che va per accumulo, c’è chi nel tempo sta comunque bene e chi invece si porta dietro questi “ostacoli”, come una pila di libri, ogni volta più alta. La tempestività è importante. Più si aspetta per il cortisone, più c’è il rischio di un danno irreversibile. Nei punti in cui si sono formate lesioni, l’impulso nervoso non passa più, o se ci passa restituisce sensazioni, che percepisci in modo diverso. Per fortuna il sistema è abile a trovare strade alternative”.
Gli oggetti messi in scena per rappresentare i sintomi e le conseguenze delle varie ricadute sono semplici, volutamente banali, possiamo trovarli nelle case di ciascuno di noi, perché quotidiano è il rapporto con questo problema, tanto che la fotografa sembra sentire l’esigenza di stabilire un compromesso pacifico con questo eccentrico passeggero che abita dentro di lei: il vestito giallo che indossa, ricorre in ogni scatto perché rappresenta la malattia, ma non è proposto come un fardello, piuttosto come qualcosa che fa parte ormai della sua essenza, del suo modo di essere. La donna, che si confronta dal 2014 con questa patologia imprevedibile, dopo l’ultimo attacco, che le ha causato la paralisi dei nervi facciali per un mese intero, ha deciso di raccontare quello che le stava accadendo in chiave intima, giocosa e ironica, usando il mezzo che sa padroneggiare con maggiore disinvoltura.
“Dopo il duro colpo della diagnosi, ho capito che l’unica cosa sensata era prendere il controllo della vita, familiarizzando con qualcosa che, volente o nolente, mi avrebbe fatto compagnia per il resto del mio percorso.
Sono arrivata così al forum I primi passi nel mondo della sclerosi multipla.
In realtà l’avevo già scoperto quando, senza conferme di alcun tipo, mi ero posta il problema di avere la SM: sono capitata lì cercando notizie su Google, ma era uno fra i tanti siti dove cominciare a raccogliere informazioni. Poi, una volta tornata dall’ospedale, quando ormai il dubbio si è trasformato in certezza, mi sono iscritta e dopo alcuni mesi, sono passata prima al ruolo di “moderatore” e in seguito a quello di “amministratore”.
Il forum è stato ideato da Luca Peraboni, circa nove anni fa.
Per un certo periodo Luca ha tenuto un blog sull’argomento, ma si è reso conto che non gli bastava più raccontare la sua esperienza personale, sentiva la necessità di interagire con altre persone che avevano la sfortuna di trovarsi nella sua stessa condizione. Inizialmente gli utenti erano pochissimi, come è normale che sia, ma il sito è cresciuto e oggi si contano più di duemila iscritti. Attualmente la gestione è del fondatore, supportato da tre amministratori e due moderatori, oltre a una serie di membri onorari (amministratori e moderatori che, nel corso del tempo, per problemi lavorativi o personali, hanno dovuto allentare un po’ la partecipazione). Su I miei primi passi… non partecipano solo uomini e donne affetti da sclerosi multipla, ma anche figure vicine a chi ha contratto la malattia. Le persone si iscrivono: teoricamente l’iter è quello di presentarsi e intervenire nelle varie sezioni (i sintomi, i passi per la diagnosi, le terapie, la convivenza con la sclerosi multipla, etc., etc.), usano topic già attivi o ne creano di nuovi, pongono le loro questioni e gli altri utenti rispondono.
Non ci sono medici all’interno del forum, la scelta è voluta per rimarcare il genere diverso di supporto che si può trovare qui: qualsiasi cosa letta sul forum va poi portata all’attenzione del neurologo che ti sta seguendo, non vogliamo in nessuno modo, e questo è importantissimo, sostituirci ai medici, lo scopo di questa piattaforma è di mettere a disposizione un luogo amico dove condividere le proprie esperienze con la malattia.
Riuscire a capire, attraverso i racconti degli altri, che la vita continua, con le sue consuetudini, con la famiglia, i figli, gli amici e il lavoro, mi ha aiutato fin da subito ad approcciarmi nel modo giusto al problema e di conseguenza a ridimensionarlo”.
La diplopia è osservata attraverso la distorsione convessa di una damigiana verde, la rigidità è come un esercito di lumache che strisciano strade sghembe sulle gambe costrette da un pesante bendaggio, la disartria è come un cencio vecchio spinto in bocca con malagrazia.
E poi il segno di Lhermitte, una delle intuizioni visivamente più felici, apre a ventaglio una cresta di mollette irte come aculei, applicate lungo la discesa che dal collo arriva alla fine della schiena, trasformando l’artista in uno stegosauro mesto, ripiegato su se stesso.
Questo approccio intuitivo, ci permette di confrontarci con un linguaggio semplice, immediato e concreto (perché passa da oggetti reali), un terreno comune dove porre le basi per cominciare a capire.
Le paure ci sono, sia specifiche che esistenziali.
Una è sicuramente quella legata al lavoro. Non è facile avere delle tutele e al contempo chiederle porta a limitazioni non indifferenti, forse è questo l’ambito più ostico: possono decidere in base alla tua condizione di non assumerti, o se lo fanno poi, i colleghi possono non capire, sottovalutare (le persone amano sottovalutare), o all’opposto trattarti da malata, con tutto quello che ne consegue. Il fatto che ciò che ti affligge non sia visibile, porta spesso la gente a mettere in dubbio la portata di ciò che ti capita, ti vedono stare apparentemente bene e pensano che tu in realtà non abbia niente, che basti il cortisone per farti ritornare ai tuoi impegni.
Adesso sto bene e la malattia non è evidente.
Ma non sarà sempre così, sarebbe un’utopia pensarlo: nell’eventualità che i sintomi si manifestino in maniera inequivocabile, soprattutto alle gambe, costringendomi a trascinare una delle due, a usare il deambulatore o addirittura la sedia a rotelle, per spostamenti più lunghi, quello che mi spaventa è che le persone, soprattutto quelle vicine, amici e familiari, non lo sappiano gestire. Già ora succede. Preferiscono comportarsi come se questa cosa non esistesse, distogliere lo sguardo dall’enorme elefante che sta seduto comodamente in salotto, piuttosto che affrontare la situazione e parlarne tranquillamente. Cosa che sarei disposta, senza alcuna difficoltà, a fare.
Nel momento in cui sai di dover convivere con un problema del genere, la paura più grande è che ti escludano, che siano loro per assurdo, a sentirsi a disagio (al posto tuo) o che smettano di trattarti come facevano prima. Ti chiamano per sapere come stai, ostentando una voce da oltretomba, o ne parlano alle persone che ti stanno vicine e mai a te direttamente. E quando li rassicuri, dici loro che stai bene, quasi restano sorpresi, addirittura “delusi”. Come se fosse una malattia immaginaria.
In altri casi li destabilizza il fatto che il tuo stadio non resti sempre lo stesso: non puoi oggi stare bene e domani venire a rompermi le scatole perché stai male! Sei tu che finisci per preoccuparti che gli altri siano a proprio agio o rassicurarli sul fatto che è tutto a posto, in modo da non dover sopportare l’ombra che gli passa davanti agli occhi.
Avere una persona vicino come Francesco (il mio fidanzato), ha davvero fatto la differenza: ha gestito la notizia benissimo, praticamente da subito, si è concesso una sola sera per disperarsi, ma poi è diventato, immediatamente, il punto di riferimento insostituibile in cui trovare il coraggio di cui avevo bisogno.
Egle costruisce una sorta di bignami didattico, con un linguaggio che ci ricorda quello adoperato dalle maestre durante la nostra infanzia, per cercare di farci capire e memorizzare nozioni complesse. L’artista utilizza le immagini come supporto, per affrontare una delle insidie della sua condizione, il problema di spiegare in modo chiaro a chi ti è vicino, di cosa si tratta: far capire quanto possano diventare cruciali e importanti, addirittura enormi, certi piccoli gesti, la percezione del mondo, azioni minime, che fino a un giorno prima davamo per scontati.
Post scriptum
Ieri ho trovato un messaggio di Elisa sul cellulare, un’ultima considerazione che chiude il cerchio e mi riporta alla fotografia di Prue Stent, quella della ragazza avvolta da un involucro gommoso, e a qualcosa della serie di Egle Picozzi, un’annotazione importante, l’impressione di un’urgenza, un aspetto che mia sorella ha compreso meglio di me.
“Ripensando alle fotografie che mi hai mostrato di Egle, ne ricordo alcune dove lei aveva una specie di impedimento sugli occhi, o addirittura un velo semitrasparente che scendeva a coprirle totalmente il viso. In un primo momento ho interpretato questi elementi come rappresentazioni simboliche di problemi alla vista. Però mi fa pensare anche ad altro: alcuni sintomi della sclerosi non si notano, chi ti incontra ti vede come ti ha sempre vista, gli sembra che tu non abbia niente e quindi non riesce a capire quanto tu veramente possa stare male. Certo alcune persone particolarmente catastrofiche tendono a sopravvalutarlo. Ma il vero problema si presenta quando questi ostacoli vengono sottovalutati. Purtroppo non sono né facilmente spiegabili né chiaramente percepibili dall’esterno, come ad esempio tutti quei sintomi legati all’aspetto cognitivo: una memoria meno rigorosa, facile distrazione, difficoltà di concentrazione, tutte cose che io conosco, ma chi mi sta accanto spesso liquida come un mio modo di essere, una mia peculiarità, precedente alla malattia.
Il che crea grande frustrazione ed è un po’ il punto cruciale del discorso, l’AISM si concentra molto su questo aspetto: vieni in qualche modo emarginato, perché dall’esterno questi problemi che hai non si vedono e quindi non sembrano tangibili, prendi il segno di Lhermitte è qualcosa che io avverto in modo inequivocabile, ma se ti dico che sento una scossa elettrica che mi passa per la spina dorsale, ti metti a ridere, non ci credi. Ho una mano informicolita ma tu non puoi riconoscere quello che sento, non hai prove che sia vero. Forse Egle in qualche modo ha cercato di dire anche questo: che dall’esterno il tuo problema, sebbene sia concreto, non è evidente, e questo tira su un muro invisibile, un vetro traslucido spesso e robusto, fra te e gli altri”.
Classe 1980. Foto-ricordi per notturni di penna, amici di vino e biscotti salati. Amo la musica da quando ero bambino, amo l’arte da quando sono diventato adulto. Nel mezzo ho sempre scritto.
E’ un grande piacere aver letto questo bell’articolo e avere la fortuna di essere menzionato per il mio forum.
E’ una fortuna aver trovato un’amministratrice (e soprattutto un’amica) come tua sorella che dietro all’aria fragile nasconde uno spirito da vera guerriera.
Ancora complimenti.
Luca
Grazie Luca, vi seguo grazie a Elisa da molto. È bellissimo quello che fate. Avevo voglia di scrivere qualcosa al riguardo e finalmente si è presentata l’occasione.
Molto bello, bella l’intervista.. l’argomento é difficile ma legato alla fotografia come mezzo per esteriorizzare il disagio interiore mi ha toccato.
Bravo e bravi tutti
Grazie Andrea, grazie mille. L’argomento è difficile e delicato. Il linguaggio della fotografia è stato determinante, per quanto mi riguarda, per capire di pancia, alcuni punti fermi e cruciali, che hanno poi trovato conferma nel racconto di mia sorella.