Alterità e luce accecante che livellano ogni rumore esterno, favorendo il dialogo fra esistenze diverse
Un progetto fotografico di alto livello, non tralascia niente, è come un’ossidoriduzione che va bilanciata con sapienza, per raggiungere il senso del vero, l’equilibrio. Il lavoro di Stefania Adami, fin dal titolo, presenta queste caratteristiche: A dislivello del mare (2011) è un gioco di parole tutt’altro che tiepido, perché ci mette di fronte, immediatamente, alla questione cruciale dell’alterità, che per definizione presuppone uno scarto, fra la nostra percezione di chi ci sta di fronte e quella sua di rimando. La cosa poi si amplifica notevolmente, se ci troviamo a cospetto di culture, condizioni sociali o esperienze, distanti da quelle che conosciamo quotidianamente (specie in tempi come quelli che stiamo vivendo).
Oltre all’equilibrio, una serie fotografica perfetta nelle sue componenti, deve perseguire l’intelligibilità, deve saper parlare una lingua comune a tutti i suoi fruitori: la scelta di trattare il tema “dell’altro” e l’auspicabile mediazione con esso (e quindi integrazione), tramite il racconto del mestiere dell’ambulante lungo i litorali del Paese, è una scelta importante perché ci proietta in un luogo familiare, un ricordo che ogni estate si rinnova per molti italiani e quindi un momento che, più o meno tutti, possiamo riconoscere.
La struttura della serie ha una forte musicalità che muove da quella schiena, quel volto negato della prima immagine, che sembra volersi confondere con la sabbia, per dare il via a una progressiva danza di imbonimento, dove la merce in vendita diventa il linguaggio comune su cui confrontarsi, mentre il viso delle persone ancora rimane nascosto, schermato da un accumulo di filtri che accentuano la distanza: gli oggetti, come caleidoscopi di forme differenti, attraverso cui questi uomini e queste donne ci guardano (perché quello di Stefania Adami è come un racconto in prima persona); i nostri occhiali a specchio, glaciali come uno scudo. e poi la luminosità violenta, che investe improvvisamente chi si desta dal torpore di palpebre serrate.
La luce e il fastidio che questa provoca, come la stessa fotografa racconta, è un elemento chiave, per rendere ciò che risulterebbe altrimenti incomunicabile e isolare la disparità fra i due mondi: sceglie il chiarore di giugno, con il sole che brucia la pelle e lo sguardo, poi in sede di post produzione ne accentua ancor più radicalmente l’effetto, mostrando sapientemente cosa si intende oggi per “interpretazione”.
Questa progressiva apertura verso il dialogo, trova un appiglio saldo, oltre il comune linguaggio della compravendita, dentro a segnali ben più profondi e identitari, come il confronto diretto (allo stesso livello, appunto) che lo spettatore non può più eludere, verso la fine della serie, perché accompagnato da un sorriso, che sembra riuscire a sciogliere ogni riserva: è qui che finalmente comprendiamo l’inganno della nostra cultura, che ci vuole divisi, in segmenti sempre più piccoli, sotto lo stesso cielo.
Il lavoro di Stefania ha la forza accecante di un bagliore che ti aggredisce, appena uscito da una pineta ombrosa. Ti trovi di colpo in un altro mondo, dove la risacca ti tormenta in un continuo mugghiare e le voci e le parole si disperdono e ricuciono, in un carosello di andate e ritorni. Tutto questo percepito sotto il fardello di una cesta, schermato da un cappellino, straniato da maniche troppo lunghe per non porsi domande stupide. E lì, in quel bianco che uccide tutto, solo quegli sguardi “altri” prendono colore e senso, in composizioni che sembrano coreografie di un teatro di fatica e sudore.
Classe 1980. Foto-ricordi per notturni di penna, amici di vino e biscotti salati. Amo la musica da quando ero bambino, amo l’arte da quando sono diventato adulto. Nel mezzo ho sempre scritto.