Storie di bambine, ragazze e adulte, nelle fotografie di Joseph Szabo, Sally Mann, Fausto Podavini e Annie Leibovitz
La ragazzina guarda fuori campo mentre tira su i jeans. Le sopracciglia piatte e le palpebre strette sembrano voler trattenere un pensiero, con la stessa ostinazione della bocca, da cui pende una sigaretta accesa, tenuta in bilico dal labbro superiore. Intorno, satura il cielo un vociare svagato di bagnanti che a decine, centinaia (forse di più) popolano la lingua di sabbia infinita di Jones Beach (New York). La salsedine fa seccare la pelle, ma il profumo è buono e la sensazione corroborante.
Joseph Szabo non fa in tempo a scattare un paio di fotografie e controllare di aver impostato l’apparecchio nel modo giusto: appena torna a guardare, della bambina non c’è più traccia. È sparita in mezzo al convulso brulicare di corpi.
Solo un anno più tardi, riconoscerà (o si convincerà di riconoscere) nel volto, nei capelli, nei tratti somatici di una studentessa del suo corso (Szabo al tempo insegnava arte e fotografia presso la Malverne High School di Long Island), quelli della giovane fumatrice fermata sulla pellicola e trasformata in icona (diventerà anni dopo la copertina del disco Green Mind della band Dinosaur Jr.), in un istante irripetibile, di un giorno qualsiasi sulla spiaggia assolata.
Finalmente ha un nome da dare a quello sguardo che sembra scavalcare il cancello malsicuro dei propri anni e spingersi oltre l’età, per giocare, come si fa sempre da piccoli, a fare gli adulti, consapevoli e indipendenti: Priscilla. E il fatto di aver dato un nome a quegli occhi inquieti, gli restituisce finalmente un senso di pace e compiutezza.
Altrove venti anni dopo, intorno a Lexington (Virginia), Sally Mann coglie lo stesso sguardo che ha fretta di disfarsi di bambole e fiocchi, nella figlia maggiore Jessie, che all’interno di una composizione pressoché perfetta, osserva l’obiettivo (non la madre), ostentando fra due dita una caramella a forma di sigaretta, mentre fa riposare il braccio destro sotto l’altro, in una posa da diva che ha forse copiato da qualche modella, trovata sulle riviste patinate o al cinema. A destra la sorellina Virginia, più piccola di quattro anni, tiene le mani sui fianchi dandoci le spalle, attenta a non perdere di vista suo fratello nell’angolo destro in alto del frame, mentre sparisce lentamente nell’orizzonte incerto della sfocatura, sopra a una scala o a un paio di trampoli. I capelli sciolti incorniciano lo sguardo di Jessy, segnato da una seriosa e forzata indolenza di chi sembra voler sottolineare che “ne ha passate tante”, quando al contrario il viso, i lineamenti dolci e acerbi, tradiscono la reale età e il gioco di fingersi altrove, in anni ancora da scoprire. E quanta malinconia c’è in questo guardare al futuro con l’impazienza di chi ignora cos’è davvero il futuro e quanto le tappe bruciate siano luoghi inaccessibili, una volta distrutti.
Nel mistero di quegli occhi ci leggo le parole di una bella canzone di Roberto Vecchioni (Figlia), che è un tentativo accorato, struggente, di raccomandare alla propria bambina di prendersi il suo tempo, di vivere fino in fondo i giorni, ma soprattutto di non perdere quel fuoco che ha negli occhi, quel faro che non cambia con l’arrivo della pubertà, poi la maturità, le rughe, il lento trasformarsi delle linee, nelle dita, lungo i seni, il colore delle guance. Lo sguardo, come un marchio indelebile, resta uguale a se stesso fino all’ultimo respiro.
E figlia, figlia,
non voglio che tu sia felice,
ma sempre contro,
finché ti lasciano la voce;
vorranno
la foto col sorriso deficiente,
diranno:
“Non ti agitare, che non serve a niente”,
e invece tu grida forte,
la vita contro la morte.
(Roberto Vecchioni, Figlia)
Dall’altra sponda dell’esistenza sta Mirella.
La donna ha 71 anni, di cui 43 passati insieme a suo marito, l’unica persona che abbia mai amato: all’uomo è stato diagnosticato l’Alzheimer e negli ultimi 6 anni la vita è completamente cambiata.
Fausto Podavini, fotografo romano formatosi a Milano nell’ambito della fotografia di reportage, intorno al 2009 per quattro anni, comincia a documentare la vita di tutti i giorni in questa casa, che assomiglia a una triste e coraggiosa sala d’attesa, di una stazione senza treni.
La giornata di Mirella comincia prestissimo e termina fra gli sbadigli, sotto il sole artificiale di un vecchio lampadario. Sembra una corsa continua contro un tempo crudele, la ricostruzione utopica di un castello di sabbia assediato dalle onde, lo sguardo inerme, smarrito, del marito che vede i ricordi staccarsi dai suoi rami come foglie morte destinate a perdersi nel vento. E ogni giorno ricomincia nello stesso identico modo, ma con qualcosa in meno: un dettaglio, una gita al mare, un bacio che lungo la schiena dava la sensazione di una piccola scossa.
C’è un immagine della serie che è il nodo centrale, nevralgico del discorso. Vediamo lei, prendersi la porzione destra dello scatto, appoggiata al piano maculato di granito della cucina, mentre una lampada da tavolo illumina una tazzina di caffè, un posacenere e la mimica del corpo, la posa familiare che abbiamo già visto assumere alla figlia di Sally Mann, un braccio a riposo sotto l’altro che tiene in sospeso una sigaretta accesa. La donna osserva con malcelata ironia, quasi un sottile scherno, lo schermo animato del televisore, che accende il buio della porzione sinistra della foto. Sta osservando un uomo e una donna che si baciano con passione e la scelta compositiva di Podavini sembra metterle in bocca (anzi negli occhi) delle considerazioni indiscutibili, che noi possiamo solo supporre: il suo è un amore differente, godetevi fino in fondo quei giorni che non ritornano, la passione è solo un tassello di qualcosa di più complesso, la passione è un passaggio che per definizione appunto “passa”, il tempo cancella quel tipo di sentimento facendone maturare un altro, il tempo cambia le cose.
Il tempo è uno schifoso bastardo e criminale.
E nella sospensione di un pensiero a cui non possiamo accedere, che è solo suo, la immaginiamo desiderare di ricominciare tutto da capo, trovare il tasto che le permette di azzerare i giorni, tornare bambina (suo marito ha trovato quella macchina del tempo ma è uno scherzo di cattivo gusto del caso) mentre il nostro pensiero inevitabilmente ritorna allo sguardo disilluso, consapevole, adulto di bambine che non hanno idea di cosa sia tutto questo, ma giocano a recitare una parte.
Ed è giusto che sia così.
E provo a immaginare
il vicino al di là del muro col suo eterno trapano in mano
a riempir di buchi il suo muro e il suo futuro
poi guardarsi allo specchio a conferma
di esistere davvero
e provo a immaginare
che per noi ci sia un mondo nuovo un mondo fatto per noi
e che la fuori ci sia qualcuno
che è ancora vivo
et voilà nel dagherrotipo madame e mr Curie
con il loro sorriso
radioattivo
(Giorgio Canali & RossoFuoco, M.me Et Mr.Curie)
Un’ultima canzone ancora.
Nel 1988 Annie Leibovitz, celebre fotografa di Rolling Stone e Vanity Fair, nota in tutto il mondo per le sue immagini iconiche della cultura pop, in occasione della realizzazione della copertina di L’AIDS e le sue metafore (1989), incontra l’autrice Susan Sontag, una delle scrittrici americane più influenti dagli anni ’60 in poi nel campo della lotta femminista, dei diritti umani e dell’arte, autrice fra i molti testi anche del saggio culto per gli amanti del medium Sulla fotografia: realtà e immagine nella nostra società (1978).
Le due donne sembrano agli antipodi, sembrano poli opposti dello stesso campo elettrico, che inevitabilmente cominciano ad attrarsi e nel giro di alcuni anni diventano amanti inseparabili.
“…guidata dal bisogno di trovare se stessa, fu in grado alla fine di vivere una vita completamente inimmaginabile per quei tempi. Madre single, si trasferì da sola a New York e riuscì a mantenersi scrivendo saggi per riviste letterarie e romanzi. Ce la fece anche se era una donna. Altrettanto inimmaginabile per una donna nata negli anni ‘Trenta era il fatto di amare qualcuno dello stesso sesso; anche per questo forse Sontag non volle dichiarare pubblicamente la relazione con Leibovitz”.
(Daniel Schreiber, Susan Sontag)
Inizialmente il loro rapporto non è esclusivo, la Sontag frequenta altri uomini e altre donne, poi lentamente dagli anni ’90 scelgono un’unica strada che le porterà in Italia, Egitto, Giappone, Giordania e a vivere insieme sul fiume Hudson, si confrontano, condividono idee, crescono artisticamente. Poi a 65 anni Susan si ammala, gli viene diagnosticato un raro sarcoma uterino e chiede alla compagna di documentare fotograficamente tutto il decorso della malattia fino al triste epilogo (queste immagini andranno a costituire la parte più toccante del volume Fotografie di una vita. 1990-2005). Annie lo fa, scoprendo un modo di fotografare diverso da quello che conosceva e che l’ha resa tanto celebre: il suo sguardo questa volta è partecipe, intimo, delicato ma al contempo presente, senza censure. Quello che risulta è una lettera d’amore senza parole fra le più belle e tristi che si possano immaginare. E il senso di queste immagini non sta nello sguardo carico di rimpianti verso un passato e un rapporto complesso, a volte viscerale, ma bellissimo che ci è stato strappato ingiustamente. Il senso di questi scatti è il presente, dove non ci sono bambine che giocano a sembrare donne navigate e non ci sono donne ormai vecchie che sognano di tornare a un tempo che non si può recuperare. Il senso di Annie e Susan in questi brandelli di vita, chiusi in una cornice che esclude tutto il resto, è quello di un ritmo coerente con l’età, di un luogo dove ci si accorda in due sulla stessa nota e non esistono ieri o domani, c’è solo il presente, sacrosanto, eccezionale, assaporato fino a coglierne ogni singolo, minimo splendore.
Mezzanotte e i passanti si tengono a distanza
Chiara aspetta con le quattro frecce
Sara che aspetta di cadere incendiando il cielo come un meteorite.
E pensa: sei più bella adesso mentre sfiorisci,
sei come i fondali oceanici che resteranno sconosciuti,
di ritorno dai tuoi viaggi di quattro anni.
Pensa: guarda qui ci sono tutti i miei punti deboli,
guardami mi lascio dietro degli spazi bianchi.
Forse si trattava di accettare la vita come una festa,
come ha visto in certi posti dell’Africa.
Forse si tratta di affrontare quello che verrà
come una bellissima odissea di cui nessuno si ricorderà.
[…]
Forse si trattava di dimenticare tutto come in un dopoguerra
e di mettersi a ballare fuori dai bar come ha visto in certi posti della Ex-Jugoslavia.
Forse si tratta di fabbricare quello che verrà
con materiali fragili e preziosi, senza sapere come si fa.
(Le Luci Della Centrale Elettrica, Le ragazze stanno bene)
Classe 1980. Foto-ricordi per notturni di penna, amici di vino e biscotti salati. Amo la musica da quando ero bambino, amo l’arte da quando sono diventato adulto. Nel mezzo ho sempre scritto.