Considerazioni su The Last Dance, la docuserie di Netflix che racconta l’ultima stagione (e non solo) dei Chicago Bulls di Michael Jordan
The Last Dance, il documentario (dieci puntate da 50-55 minuti l’una) che racconta l’ultima stagione dei Chicago Bulls di Michael Jordan, disponibile su Netflix (negli USA, invece, è trasmessa da ESPN, che ha coprodotto la serie), ha riscosso un successo enorme. Per capire cosa rappresenti non è sufficiente una recensione in senso stretto, ma piuttosto una guida per capire il target ed il contenuto del prodotto e sapere cosa aspettarsi di vedere o valutare diversamente ciò che si è già visto. D’altronde, limitarsi a recensire tecnicamente The Last Dance sarebbe molto semplice, perché il prodotto è senza dubbio confezionato in maniera eccellente.
Metodo narrativo
Anzitutto il metodo narrativo è estremamente efficace. Ogni puntata si divide fra un pezzo della stagione 1997/98 (quella che appunto l’allenatore Phil Jackson chiamò “The Last Dance”, sapendo che sarebbe stata l’ultima) e un’altra delle stagioni precedenti (ovviamente narrate in ordine cronologico), utile per ricostruire il percorso che ha portato i Chicago Bulls a quel momento.
Non solo, ma quasi ogni episodio si focalizza sulla storia di uno dei protagonisti di quella squadra: oltre a quella di Michael Jordan (che ovviamente è il protagonista assoluto della serie), sono approfondite le vicende personali di Scottie Pippen, Dennis Rodman, Phil Jackson, Toni Kukoc e persino Steve Kerr, oggi vincente allenatore dei Golden State Warriors (di cui esibisce la maglietta durante le sue interviste) ma all’epoca solo gregario di quei Bulls.
In seconda battuta, il montaggio e la composizione della colonna sonora sono di grandissima qualità. The Last Dance gode inoltre di splendide immagini restaurate che permettono anche a chi già conosce le imprese di Jordan e compagni di goderne sotto una nuova luce.
Riprese inedite
La base su cui si poggia il documentario, però, è composta dalle inedite riprese dietro le quinte proprio dell’ultima stagione, il cui utilizzo è stato concesso da Jordan solo nel 2016 (non banalmente qualcuno ha fatto notare che il via libera sia arrivato proprio dopo la straordinaria impresa di LeBron James a Cleveland e l’affermazione di Steph Curry a livelli impensabili). Il materiale a disposizione risulta allettante per chiunque, fan di nicchia e fan improvvisati.
Così, de botto, qualche giocata di Michael Jordan per ricordarci di chi parliamo.
L’impostazione cinematografica
Da ultimo, la parabola di quei Chicago Bulls si presta benissimo a diventare oggetto di un racconto dai tratti fortemente cinematografici, avendo tutti gli stilemi del film sportivo: l’ascesa del campione, la sua maturazione per arrivare alla vittoria, la sua caduta ed il suo ritorno.
Proprio quest’impostazione cinematografica, che molti documentari recenti stanno adottando (si veda l’altrettanto fortunato Tiger King), è una delle chiavi del suo successo. Il personaggio di Jordan è il perfetto eroe (o antieroe, come vedremo meglio dopo) pronto a sopraffare qualunque avversario gli si pari davanti, forte di un agonismo senza pari, più simile a quello del protagonista di un manga shonen che non di un uomo esistente.
Andando oltre questi dati principalmente tecnici pressoché inattaccabili, non si possono ignorare le diverse critiche che The Last Dance ha ricevuto soprattutto da una buona fetta dell’abituale pubblico dell’NBA.
Le critiche
La prima di queste è quella di non svelare nessun particolare retroscena che non si conoscesse. Cosa che è vera ma solo per l’appassionato di NBA, che non è il target di spettatore al quale The Last Dance si rivolge. Il riferimento resta quello dell’utente medio, non così ferrato sui contenuti NBA ma comunque interessato a un racconto di qualità.
Inoltre, oltre che a un pubblico nostalgico, The Last Dance ha la possibilità di rivolgersi a un pubblico giovane che potrà avere il piacere di scoprire cose scontate solo per chi le ha vissute. Chi oggi ha vent’anni non è nato in tempo per vedere quei Chicago Bulls, chi ne ha venticinque non li ricorderà. Chi ne ha qualcuno in più potrà avere una percezione di cosa rappresentasse MJ senza però avere cognizione piena della sua importanza sportiva, a meno che non si sia documentato.
Questo concetto, che è già valido per gli spettatori statunitensi, è esasperato in Italia, dove i veri conoscitori di NBA sono una nicchia, complice la difficoltà di seguire un campionato che si gioca a orari proibitivi per ovvi motivi di fuso orario. Difficilmente la conoscenza dello spettatore medio coprirà tutto quanto raccontato in The Last Dance. L’obiettivo di raccontare qualcosa che non si conosce è dunque pienamente centrato se si guarda al target di riferimento.
Un eccessivo jordancentrismo
La critica principale che però sta ricevendo il prodotto è quella di un eccessivo jordancentrismo, nonché di una narrazione faziosa che non accetterebbe punti di vista diversi da quelli di “His Airness”. In questo caso è necessario avere consapevolezza di ciò che si sta guardando. The Last Dance è stato realizzato solamente grazie alla collaborazione e alla partecipazione di MJ. Immaginare che qualcuno si spenda per la realizzazione di un prodotto che possa metterlo in cattiva luce è francamente ingenuo.
Proprio avendo chiaro questo presupposto, lo spettatore deve tarare le dichiarazioni di Jordan sugli aspetti più controversi della sua vita quali il suo rapporto con le scommesse e la politica. Dovrà anche avere la curiosità di cercare qualche lettura che approfondisca ulteriormente alcuni passaggi del documentario e che – anche per motivi di minutaggio – non può essere trattato esaustivamente.
Aspetti controversi della vita di Jordan
Se comunque non si ha questo desiderio di andare oltre quanto visto, non si può dire comunque che, per quanto edulcorati, non siano stati trattati i temi più spigolosi della vita di Michael Jordan. Non c’è un compagno di squadra che non abbia fatto capire quanto il comportamento di MJ durante gli allenamenti sfociasse nel bullismo. Inoltre hanno avuto voce in capitolo anche nemici di Jordan come il playmaker degli odiati Pistons Isiah Thomas ed il giornalista Sam Smith.
Si capisce che le scommesse fossero rilevanti nella vita del 23 dei Bulls, per quanto non lo abbiano ridotto in miseria. Alcune cattive compagnie sono state nominate e si può ricostruire facilmente il loro background. Della sua mancata partecipazione politica, poi, ognuno potrà farsi un’idea anche da quei pochissimi minuti in cui se ne parla (per quanto servano anche altre letture per avere una visione completa del contesto in cui si manifesta).
Si torna al discorso di prima: lo spettatore medio (soprattutto italiano) probabilmente avrà una visione di MJ che si limita al giocatore di basket e all’attore di Space Jam, quindi potrebbe rimanere spiazzato dall’apprendere alcuni aspetti della vita di Jordan. Un racconto dunque sicuramente edulcorato, ma non così carente di fatti come lamentano alcuni né così votato alla beatificazione del Jordan uomo (su quello del Jordan giocatore, invece, c’è ben poco da criticare).
Jerry Krause dipinto come l’antagonista della serie
Quello che si poteva evitare era descrivere il defunto Jerry Krause, dirigente sportivo dei Bulls, come vero grande antagonista della serie, più di qualunque altro rivale sul campo, essendo reo in particolare di aver smembrato la squadra quando, secondo Jordan, potevano puntare a un altro titolo. Un uomo sicuramente dal carattere non semplice ma i cui meriti forse andavano maggiormente sottolineati, essendo l’artefice principale di quella squadra, costruita con intuizioni incredibili. Fortunatamente nel corso delle puntate anche la descrizione di Krause si ammorbidisce, culminando in un enorme attestato di stima professionale di Scottie Pippen (che, come emerge dalla serie, ebbe grossi screzi con Krause).
Perché consigliamo The Last Dance?
The Last Dance è un prodotto che ha stabilito un nuovo standard per i documentari sportivi (e forse anche non sportivi), forte di un taglio cinematografico che difficilmente fa perdere l’attenzione allo spettatore.
Proprio per l’importanza che l’aspetto narrativo ricopre nell’opera e per il fatto che inevitabilmente si narri la vicenda da un punto di vista di parte, bisogna aspettarsi un documentario votato più al raccontare efficacemente una storia che all’inchiesta, come ben poteva evincersi dalle premesse con cui The Last Dance si presentava.
Nonostante ciò, comunque, tutti gli aspetti fondamentali di quei Chicago Bulls e della vita di Jordan vengono toccati, lasciando la possibilità allo spettatore con un minimo di raziocinio di tarare la versione di parte del racconto e, nel caso, di approfondire gli aspetti più controversi di MJ.
Il consiglio è quello di non perdersi The Last Dance, anche se non si conosce la regola dei passi nel basket, perché la storia raccontata (ottimamente confezionata) è capace di colpire lo spettatore su più piani emotivi.
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