Non passa giorno che tv e giornali non riportino l’ultimo dato negativo sulla disoccupazione giovanile. Il dato è certamente tra i peggiori d’Europa, ma qual è il suo senso? Chi sono realmente i giovani e quanti sono quelli effettivamente senza un’occupazione? È davvero prioritario che la trovino? In questo articolo cercherò di fare un po’ di chiarezza.
La disoccupazione in Italia è uno dei problemi maggiori. Al livello già di per sé preoccupante si potrebbe aggiungere la situazione di quei tanti lavoratori costretti a svolgere attività sotto-pagate oltre che sotto-qualificate. Eppure sembra che l’opinione pubblica si concentri solo su un punto: la disoccupazione giovanile.
In effetti il tasso di disoccupazione giovanile è tra i più alti d’Europa. Nel mese di giugno si trovava al 35,4%, dietro solamente a Spagna e Grecia.
Capita spesso però che questo dato, costantemente negativo, venga commentato dai giornali con toni sensazionalistici, diffondendo delle vere e proprie fesserie.
Di seguito vi propongo qualche screenshot tratto da alcune delle principali testate giornalistiche.
Posso dire tranquillamente che è assolutamente falso che un giovane su tre è senza lavoro, ed è altrettanto falso che il 35,4% dei giovani, così come i precedenti 40 e 37%, sia senza lavoro.
Chi sono i giovani?
Domanda apparentemente banale ma che in Italia non lo è affatto. La sindrome del ritardo nel nostro Paese ha spostato anche la percezione di chi siano effettivamente i giovani.
Per sindrome del ritardo si intende la lentezza, rispetto al passato e ai coetanei europei, con la quale i giovani italiani affrontano i passaggi che li porteranno alla vita adulta. Le tappe in cui si manifesta il ritardo sono:
Il ritardo accumulato in una tappa si ripercuote in quelle successive, poiché verranno raggiunte in un’età sempre più avanzata. |
Le politiche per il lavoro a loro destinate contribuiscono ad aumentare la confusione. Penso ad esempio al Piano europeo Garanzia giovani, che in Italia si rivolge al “giovane tra i 15 e i 29 anni“.
In realtà, statisticamente parlando, i giovani sono solo ed esclusivamente quelli che hanno un’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Ciò significa che i venticinquenni senza lavoro, per quanto ai nostri occhi possano sembrare dei ragazzini, rientrano già nella disoccupazione adulta e non più in quella giovanile.
Cosa calcola il tasso di disoccupazione?
Per leggere un dato statistico non è sufficiente fermarsi al nome, ma è fondamentale capire come è stato calcolato. Poi lo si può commentare e anche contestare, ma almeno lo si fa consapevolmente.
Riprendiamo i titoli postati in alto. Se fosse vero che 1 giovane su 3 è senza lavoro, ciò significherebbe che 2 su 3 studiano o lavorano. In realtà non è così.
Sommando il tasso di occupazione giovanile (16,6%), quello di inattività (74,4%) e quello di disoccupazione (35,4%), vi accorgerete che il totale è pari al 126,4% e non al 100%.
Il motivo è semplice:
il tasso di disoccupazione non si calcola sul totale della popolazione di riferimento.
Si calcola invece sulla popolazione attiva, ossia gli occupati e i disoccupati che sono impegnati attivamente nella ricerca di un lavoro.
Ai fini del calcolo non vengono dunque presi in considerazione gli inattivi, cioè quelli che non hanno un lavoro e non sono interessati a cercarlo. Nel caso dei giovani l’esempio tipico è dato dagli studenti.
Parlando di cifre assolute, su un totale di 5.881 giovani, solo 534 sono disoccupati. In altre parole:
solo il 9% dei giovani è senza lavoro
per cui:
solo 1 giovane su 11 è senza lavoro
Gli altri, il 91%, o ce l’hanno o non lo stanno cercando.
Quale lavoro per i giovani?
Il dato, seppur ridimensionato, è pur sempre negativo. Ma è davvero prioritario che i giovani trovino lavoro? La scelta ossessiva di indirizzare buona parte delle politiche sul lavoro nei loro confronti è giustificabile?
Prima di dare la mia risposta, peraltro facilmente intuibile, preferisco fornire un dato ulteriore: quello relativo all’abbandono scolastico.
Nel 2016 il 13,8% dei giovani (1 su 7) ha lasciato definitivamente gli studi con in tasca la terza media. Di questi il 7,4% è disoccupato.
Sia chiaro, rispetto al 2006, quando il tasso era pari al 20,4%, sono stati fatti notevoli progressi. Tuttavia il nostro Paese, benché vicino al 10% da raggiungere entro il 2020 prefisso dall’UE, rimane tra i peggiori d’Europa. Senza contare che l’Italia è agli ultimi posti in Europa anche come numero di laureati di qualsiasi fascia d’età.
A questo punto la domanda non è: “perché i giovani non trovano lavoro?”, quanto piuttosto: “perché i giovani non studiano?”.
Per ridurre il tasso di disoccupazione giovanile sarebbe sufficiente che i ragazzi andassero a scuola come dovrebbero. Ancora di più se decidessero di affrontare un percorso universitario, un investimento per il futuro che li terrebbe impegnati proprio fino ai 24 anni di età.
Pertanto le politiche destinate ai giovani non dovrebbero essere mirate alla ricerca del lavoro, bensì a favorire l’istruzione. Ultimamente si sta parlando di aprire le scuole anche d’estate, ma non si capisce ancora quale sia l’utilità di questa scelta dal punto di vista formativo.
Il vero problema: la disoccupazione adulta
Se la chiave per ridurre la disoccupazione giovanile è quella di far studiare i giovani, lo stesso non si può dire per gli adulti (con età 25-64). In questa fascia d’età la scuola è ormai un lontano ricordo mentre l’università, a parte per i fuoricorso più giovani, è al massimo un’attività secondaria.
La preoccupazione principale per questa popolazione è una sola: trovare un’occupazione.
A giugno 2017 la disoccupazione adulta era pari a:
- 17,4% per la fascia d’età 25-34;
- 8,9% per i 35-49;
- 6,2% per i 50-64.
Per un totale del 9,5% nell’intera fascia di popolazione 25-64.
A questi va ad aggiungersi l”area grigia” del mercato del lavoro, ossia quella fascia di popolazione che, pur rientrando statisticamente tra gli inattivi, è in realtà disoccupata a tutti gli effetti. Ciò può essere dovuto a persone che:
- hanno effettuato l’ultima ricerca di lavoro più di 4 settimane prima, magari perché scoraggiate;
- non si dichiarano disoccupate ma sarebbero disponibili a lavorare se ne avessero l’occasione;
- vogliono lavorare, ma per diversi motivi non possono iniziare prima di due settimane.
Pensate ad esempio alle donne costrette a fare la casalinghe per via della mancanza di lavoro.
Questi sono i dati veramente preoccupanti, ed è in favore di questa fascia di popolazione che dovrebbero essere orientate le politiche per il lavoro. In questo caso l’obiettivo dovrebbe essere quello di rendere più agevole l’ingresso, o il rientro, nel mercato del lavoro. Ma questo non è sufficiente.
In un mercato del lavoro dominato da call center e porcherie simili, i (pochi) laureati continueranno a rimanere disoccupati (risparmio ogni commento su chi parla di “choosy”) e/o fortemente scoraggiati, in quanto vedrebbero sprecato il loro titolo di studio. Condizione questa che disincentiva i giovani nel proseguire gli studi.
Dal punto di vista lavorativo, la disoccupazione giovanile è quindi un falso problema. Il dato italiano fortemente negativo racconta in realtà la poca voglia di studiare di molti giovani. Se tutti prendessero almeno il diploma, il tasso di disoccupazione diminuirebbe autonomamente senza la necessità di attuare alcuna politica del lavoro.
Il vero problema che si dovrebbe cercare di risolvere è in realtà quello relativo alla disoccupazione adulta.
Classe 1986. All’università ho scoperto la lingua cinese ed è stato amore a prima vista, tanto che da allora ho continuato a studiarla da autodidatta.
Nel blog, oltre a parlarvi della cultura cinese, cercherò di rendervi più familiare una delle lingue più incomprensibili per antonomasia.
Potete contattarmi scrivendo a: m.bruno@inchiostrovirtuale.it