no alla violenza sulle donne

Benvenuti nell’era del femminismo 2.0, dove le donne tornano a manifestare contro il femminicidio, gli stereotipi di genere e le disuguaglianze nel mondo del lavoro

Pochi giorni prima della Giornata internazionale della donna, è arrivata la sentenza della Corte europea dei diritti umani che, con una decisione storica, ha condannato l’Italia per non aver agito in tempo, nonostante le denunce, per prevenire l’ennesimo caso di violenza ai danni di una donna per mano di suo marito, nonché l’uccisione del figlio, e ha riportato l’attenzione su uno dei problemi che hanno afflitto e continuano inesorabilmente ad affliggere la nostra società: la violenza sulle donne.

Quest’anno (2017, ndr) l’8 marzo è stata una giornata dedicata alla “lotta” delle donne, che unite dal grido “non una di meno”, hanno deciso di aderire allo sciopero globale lanciato in Argentina e poi ripreso da una quarantina di Paesi in tutto il mondo, per dire NO alla violenza di genere.

Quello della violenza sulle donne è un tema che rappresenta un problema sociale enorme. Ogni giorno nel mondo centinaia di donne sono costrette a subire violenza (fisica, psicologica, sessuale, familiare, sul lavoro) e nei casi peggiori vengono uccise. Si stima infatti che 1 donna su 3 nel mondo sia stata vittima di violenza almeno una volta nella vita e che in 7 casi su 10 questi eventi si verifichino all’interno delle mura domestiche. Ma il dato sicuramente più significativo è che il 90% delle vittime non denuncia questi atti. La violenza sulle donne ha conseguenze indubbiamente anche sul conseguimento dell’uguaglianza di genere: gli esperti infatti sottolineano come le donne che hanno subito violenze ne risentono nella vita quotidiana, pubblica e sociale.

L’emergenza femminicidio

La diatriba che in questi ultimi anni ha infiammato l’opinione pubblica riguarda una parola in particolare: femminicidio. Vorrei sottolineare il fatto che io non sono tendenzialmente una “femminista attiva”, però voglio spezzare una lancia a favore di questa giusta causa. La parola femminicidio non è soltanto una differenziazione di genere e tantomeno deriva soltanto da esigenze mediatiche, in realtà è una parola densa di significato. La principale causa di morte delle donne nel mondo è l’omicidio. Se un termine già c’è perché crearne un altro, si è chiesto qualcuno.

Rosario Coluccia, dell’Accademia della Crusca, risponde così:

“La voce femmina nel vocabolario viene spiegata così: “essere umano di sesso femminile, spesso con valore spregiativo”. Bada all’aggettivo spregiativo, la soluzione è lì. Il femminicidio indica l’assassinio legato a un atteggiamento culturale ributtante, di chi considera la moglie, la compagna, l’amica, non un essere umano di pari dignità e di pari diritti, ma un oggetto di cui si è proprietari, se un altro maschio si avvicina all’oggetto che si ritiene proprio, scatta la violenza cieca. […] È giusto usare femminicidio, per denunciare la brutalità dell’atto e per indicare che si è contro la violenza e la sopraffazione. Bene ha fatto la lingua italiana a mettere in circolo la parola femminicidio; il generico omicidio risulterebbe troppo blando”.

Da cosa nasce l’esigenza di inserire un’ottica di genere per definire un crimine che nella realtà è neutro? Al di là del fatto che noi conosciamo già specificazioni alla categoria omicidio, come ad esempio il fratricidio, l’uxoricidio, etc., viene in aiuto una vicenda storica che vale la pena raccontare. Il femminicidio nasce per indicare gli omicidi di donne in quanto donne, che come unica colpa hanno quella di essere uscite dagli schemi tradizionali e stereotipati della figura femminile senza voce in capitolo sulla sua vita. Con la sentenza dell’11 dicembre 2009, la Corte interamericana dei diritti umani, ha condannato il Messico per aver violato il diritto alla vita, all’integrità fisica e alla libertà personale, nel caso specifico di 3 donne, ma nella realtà dando giustizia a migliaia di donne stuprate, torturate, uccise o scomparse nel nulla dal 1992 in poi, utilizzando per la prima volta la parola “femminicidio”. Si è data così finalmente consapevolezza di questo crimine e si è reso possibile anche studiarlo e raccogliere dati funzionali a introdurre nuove leggi, in Messico prima e nei Paesi latinoamericani poi.

Lo scenario italiano

Anche nel nostro Paese però da diversi anni sentiamo parlare con insistenza di emergenza femminicidio.

“Quella del femminicidio è ormai in Italia un’emergenza sociale tragica e inquietante“, ha sottolineato Mattarella. Ma perché emergenza? I dati parlano chiaro, e sono allarmanti: nel 2016 sono state uccise 116 donne. Ma qualcuno si è dimenticato che fino al 1981 nel nostro Paese era contemplato il delitto d’onore? Allora perché parlare di emergenza quando questa triste realtà esiste da sempre? Sarebbe lecito chiedersi, dove si è inceppato quel meccanismo chiamato progresso nella nostra società?

I media che continuano a trasmettere un immaginario femminile stereotipato, la politica che strumentalizza le tristi vicende di cronaca solo come trovata pubblicitaria senza contrastare concretamente il problema, rappresentano una piaga da estirpare perché il problema della violenza sulle donne non ha e non deve avere bandiere o interessi reconditi. Una donna che subisce violenza, sempre che sia abbastanza fortunata da poterla raccontare, e per giunta viene abbandonata anche dalla comunità muore due volte. È questo il motivo alla base della non-denuncia di questi episodi: molte donne temono ad esempio di non essere credute, altre pensano di venire condannate dall’opinione altrui, altre ancora non hanno abbastanza fiducia nelle istituzioni per trovare il coraggio di esporsi. Il problema ci riguarda tutti. Non sono solo le donne a dover provare empatia verso le altre donne.

Il problema riguarda e deve riguardare anche gli uomini. Questo fenomeno veicola l’idea che tutti gli uomini siano, o possano diventare in qualunque momento, dei misogini, dei violenti o addirittura assassini. Bisogna ritrovare complicità, ricercare nuove alleanze tra uomini e donne, con una piena partecipazione degli uomini stessi. Ma viviamo in una società che insegna alle donne a difendersi contro la violenza degli uomini invece che insegnare agli uomini a non usare violenza sulle donne.

La misoginia è ancora dilagante nella nostra società e la parità di genere sembra tuttora un’utopia. Basti pensare all’episodio increscioso che pochi giorni fa ha scosso le aule del Parlamento europeo. L’eurodeputato polacco Janusz Korwin-Mikke ha dichiarato: “Giusto che le donne guadagnino meno perché sono più deboli, più piccole e meno intelligenti”. Pazzesco? Forse qualcuno si è scordato di svegliare questo signore un po’ attempato alla fine del Medioevo, ma per fortuna non si è fatta attendere la risposta della eurodeputata spagnola Iratxe Garcìa Pérez in difesa delle donne contro uomini come lui, degna di una standing ovation (guardate il video qui).

Nasce il femminismo 2.0

Il vento di cambiamento che aveva contraddistinto gli anni del vero femminismo, quello che ha cambiato totalmente il panorama dei diritti civili, quello che ha portato all’abbattimento di tabù, quello contraddistinto dai movimenti in piazza, sembra essere tornato a soffiare di nuovo. Il sessismo e la disparità tra uomo e donna sono di nuovo messi alla berlina dalle nuove generazioni, che si stanno svegliando dal lungo sonno apatico che le aveva indotte a considerare i diritti sanciti nelle Carte e nelle Costituzioni come un dono di natura e non il frutto di lunghe battaglie.

Prima si sbatteva la testa contro un fatto evidente: la parità non c’era. Oggi si parte da una premessa di parità, salvo scoprire più tardi che la faccenda è più complessa“, Chiara Saraceno,

Come ideologia il femminismo non esiste più, ha seguito il destino di tutte le ideologie. Scomparse: è un fatto culturale. Ma se guardiamo oltre le parole, ritroviamo lo stesso radicalismo, la stessa motivazione nel pretendere autonomia e rispetto, nelle più giovani. Sta in questo flusso di rivendicazioni la continuità con il femminismo di allora: senza, però, connotazioni ideologiche“, Dacia Maraini.

Poche donne oggi si definiscono femministe, perché nel tempo questa parola ha assunto un connotato negativo, sembra quasi essere diventata un’etichetta dispregiativa per indicare donne che semplicemente e senza apparente motivo odiano il genere maschile. Ecco allora che per far aprire le porte alla nuova generazione di femministe 2.0 scendono in campo le star capitanate da Beyoncé, Emma Watson (che nel 2014 aveva lanciato la campagna #HeforShe, in cui si rivolgeva agli uomini perché si unissero alle donne e sostenessero il loro valore. Qui potete trovare il video del suo discorso alle Nazione Unite), Taylor Swift, Miley Cyrus, Demi Lovato, Jennifer Lawrence, Kirsten Stewart, Patricia Arquette (qui il video del suo discorso agli Oscar in difesa dei diritti delle donne), Angelina Jolie, Meryl Streep e molte altre.

Queste nuove paladine femministe si muovono abilmente tra le critiche e finiscono sotto i riflettori di palcoscenici importanti al fianco delle femministe di un tempo, riuscendo così ad accorciare le distanze tra generazioni che sembrano lontane anni luce e, apparentemente, con buone intenzioni, non solo per accaparrare follower.

La strada da fare è ancora lunga ma forse un barlume di speranza per il progresso morale della nostra società ancora c’è. Non spegniamolo.

Consigli di lettura

Se l’articolo vi è piaciuto, leggete anche quello sulla violenza di genere: cinque film per parlarne.

Scritto da:

Virginia Taddei

Avvocato e redattrice, nonché co-fondatrice di Inchiostro Virtuale.
Potete contattarmi inviando una mail a v.taddei@inchiostrovirtuale.it