Dogman e L’imbalsamatore

Garrone s’ispira alla cronaca nera per raccontare un’alienazione umana e sociale

Non è ancora tempo di tornare al cinema: niente pace, infatti, per i teatri e le sale cinematografiche, nuovamente costrette ad abbassare le serrande, dopo la recente stretta in risposta all’emergenza Covid-19.
I film, così, non tornano sul grande schermo ma restano impigliati nel piccolo schermo di una televisione o in quello piccolissimo di un computer.
Si tornano così a sfogliare i cataloghi digitali, sempre più ricchi di titoli d’autore. Non più solo contenuti leggeri, pensati per il pubblico distratto che si rivolge allo streaming, ma anche film impegnati, per la platea avvezza ai cinema d’essai.
Tra questi, due pellicole di Matteo Garrone: Dogman (2018) e L’imbalsamatore (2002). Non solo esempio di buon cinema italiano contemporaneo; ma anche la trasposizione di fatti di cronaca e, soprattutto, di storie umane.

L’imbalsamatore (2002)

Arrivato da poco nel catalogo Netflix, L’imbalsamatore è uno dei primi film che vide Matteo Garrone dietro la macchina da presa. In questo film, il regista romano si ispira alla vicenda del “nano di Termini”, un tassidermista affetto da nanismo, ucciso nel 1990 dal suo protégé. Il film, però, non è ambientato a Roma bensì a Napoli, in particolare al Villaggio Coppola. Chiamata anche “Pinetamare”, questa frazione di Castel Volturno, è uno dei più drammatici esempi di abusivismo edilizio in Italia oltre che incubatrice di quella criminalità organizzata raccontata da Roberto Saviano nella sua Gomorra (trasposto al cinema proprio per la regia di Matteo Garrone).

A fare da contraltare alle immagini plasticamente degradate del Villaggio Coppola c’è Cremona, città in cui sono girate altre scene del film. La città lombarda appare rarefatta, anonima e avvolta dalla nebbia. Ed è qui, nel contrasto tra le due ambientazioni, così dissimili eppure così identiche nell’alienazione che trasmettono, che si fa ancora più palpabile quel senso di disagio che si respira per tutta la visione del film.

Dogman (2018)

Numerosi sono i punti in comune tra L’imbalsamatore e Dogman a partire, ovviamente, dalla regia, sempre di Matteo Garrone. Sedici anni dopo L’imbalsamatore e dieci anni dopo Gomorra, Garrone torna al Villaggio Coppola. Qui è ambientata la vicenda di Marcello Fonte. Come Peppino, il protagonista de L’imbalsamatore, anche Marcello è di bassa statura. Come per la sceneggiatura del primo film, anche per questo Garrone si è ispirato a un fatto di cronaca nera; torniamo, infatti, al 1988 quando Pietro De Negri, detto “er canaro della Magliana”, uccise, presso la sua bottega di toelettatura per animali, il pugile Giancarlo Ricci, vicino alla criminalità romana.

Tuttavia, entrambi i film, pur ispirandosi a storie vere, non ripercorrono pedissequamente i binari delle vite dei protagonisti. Cambiano le ambientazioni (non Roma, ma Napoli), cambiano i nomi, cambia, talvolta, la cronaca dei fatti. Del resto, con queste pellicole, Garrone non vuole impressionare lo spettatore. Il suo cinema non è sensazionalistico. L’imbalsamatore e Dogman appaiono, piuttosto, come un banale racconto degli ultimi dove l’aggettivo “banale” vuole esaltare ancor di più quanto alcune storie non siano uscite da isolati episodi di cronaca bensì da un tessuto sociale radicato e diffuso. Peppino e Marcello sono solo due uomini qualunque che appartengono a un’umanità vastissima, che trova radici nei quartieri di sversamento di Napoli, di Roma e di tante altre città italiane. E così si comprende che l’alienazione non è il sentimento di un singolo, bensì di una società intera.

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Scritto da:

Roberto Gessi

Classe 1992, vivo in provincia di Novara e mi occupo di social network, scrittura testi e produzione contenuti per il web.
Ho delle passioni molto semplici: mi piace leggere, scrivere e fotografare. Nel 2020, per La Torre dei Venti, ho pubblicato "La Ragazza Gazzella", il mio romanzo d'esordio.